Mutuo fondiario: banca non può risolvere il contratto per pignoramento di terzi – clausola vessatoria e nulla anche con atto notarile – Corte d’Appello di Venezia 2025

Una vicenda processuale particolarmente significativa ha visto protagoniste due mutuatarie che si sono trovate a fronteggiare una situazione tanto complessa quanto insidiosa. Dopo aver stipulato un contratto di mutuo fondiario per l’acquisto della propria abitazione, si sono viste notificare un atto di precetto da parte dell’istituto bancario mutuante, che intimava la restituzione immediata dell’intero capitale residuo. La particolarità della vicenda risiede nel fatto che le mutuatarie non avevano commesso alcun inadempimento contrattuale: non erano in ritardo con il pagamento delle rate e stavano regolarmente rispettando tutte le obbligazioni assunte.

La decisione della banca di procedere alla risoluzione anticipata del contratto si fondava su una specifica clausola contrattuale che consentiva all’istituto di credito di sciogliere il rapporto qualora fossero stati promossi atti esecutivi o conservativi a carico delle mutuatarie. Nel caso concreto, era intervenuto un pignoramento da parte di terzi creditori sul diritto di usufrutto relativo all’immobile che costituiva garanzia ipotecaria del mutuo.

Di fronte a questa iniziativa della banca, le mutuatarie hanno deciso di reagire proponendo opposizione al precetto, sostenendo la vessatorietà e l’illegittimità della clausola invocata dall’istituto di credito. La controversia si è sviluppata attraverso due gradi di giudizio, approdando infine alla Corte d’Appello di Venezia che si è pronunciata nel 2025 con una decisione destinata a fare giurisprudenza in materia di tutela dei consumatori nei contratti bancari.

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Indice

  • ESPOSIZIONE DEI FATTI
  • NORMATIVA E PRECEDENTI
  • DECISIONE DEL CASO E ANALISI
  • ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI

La vicenda trae origine dalla stipula di un contratto di mutuo fondiario avvenuta mediante atto pubblico notarile. Le mutuatarie avevano ottenuto il finanziamento necessario per l’acquisto di un immobile, concedendo in garanzia ipoteca volontaria sull’immobile stesso a favore della banca erogatrice. Il rapporto contrattuale si era svolto regolarmente per diversi anni, con le mutuatarie che provvedevano puntualmente al pagamento delle rate mensili secondo il piano di ammortamento concordato.

La situazione precipitò quando uno dei creditori delle mutuatarie promosse un’azione esecutiva che condusse al pignoramento del diritto di usufrutto gravante sull’immobile ipotecato. Questo evento, del tutto estraneo al rapporto contrattuale tra le mutuatarie e la banca, venne interpretato dall’istituto di credito come presupposto per attivare una specifica clausola contenuta nel capitolato allegato al contratto di mutuo.

La clausola in questione riconosceva alla banca la facoltà di dichiarare la decadenza dal beneficio del termine o di risolvere il contratto qualora fossero stati promossi a carico delle mutuatarie o dei garanti atti esecutivi o conservativi, oppure nel caso in cui sussistesse un generico pericolo di pregiudizio al credito e alle garanzie. Sulla base di tale previsione contrattuale, l’istituto bancario classificò la posizione debitoria a sofferenza e procedette alla risoluzione di diritto del contratto, notificando successivamente alle mutuatarie un atto di precetto per il recupero immediato dell’intero capitale residuo, maggiorato degli interessi.

Le mutuatarie, ritenendo illegittima l’iniziativa della banca, proposero tempestiva opposizione ex articolo 615 del codice di procedura civile, contestando radicalmente la legittimità dell’atto di precetto. Durante il giudizio di primo grado intervenne volontariamente nel processo anche la società cessionaria del credito, che aveva acquisito la posizione debitoria nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione dei crediti realizzata dalla banca originaria. La società intervenuta si associò alle difese dell’istituto bancario, sostenendo la piena legittimità della risoluzione contrattuale operata.

Il Tribunale adito rigettò l’opposizione proposta dalle mutuatarie, ritenendo insussistenti i motivi dedotti e condannando le opponenti al pagamento delle spese processuali in favore della banca. Avverso tale pronuncia le mutuatarie proposero appello, articolando il gravame su cinque distinti motivi di censura. Il primo motivo riguardava la prova della cessione del credito alla società intervenuta, mentre i successivi quattro motivi investivano specificamente la vessatorietà della clausola risolutiva, la violazione delle norme sulla trasparenza bancaria, la nullità delle clausole relative agli interessi e la contestazione dell’anatocismo.

NORMATIVA E PRECEDENTI

La disciplina normativa applicabile al caso si articola su due livelli fondamentali: da un lato le norme civilistiche che regolano i contratti bancari e i rimedi contro l’inadempimento, dall’altro le disposizioni a tutela del consumatore contenute nel Codice del Consumo. Sul primo versante assumono rilievo centrale le disposizioni del codice civile in materia di risoluzione del contratto e decadenza dal beneficio del termine.

L’articolo 1186 del codice civile disciplina la decadenza dal beneficio del termine, prevedendo che il creditore può esigere immediatamente la prestazione dovuta se il debitore è divenuto insolvente oppure ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse. Questa norma costituisce uno strumento di tutela del creditore che si trova esposto a un maggior rischio di inadempimento, consentendogli di anticipare la scadenza dell’obbligazione senza dover attendere il termine originariamente pattuito.

L’articolo 1456 del codice civile regola invece la clausola risolutiva espressa, consentendo alle parti di convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso in cui una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In tal caso la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende avvalersi della clausola risolutiva. Va tuttavia precisato che la risoluzione presuppone sempre un inadempimento contrattuale imputabile al debitore.

Nell’ambito specifico dei contratti di mutuo bancario, particolare importanza riveste l’articolo 40 del Testo Unico Bancario, che disciplina in modo inderogabile le ipotesi di risoluzione per inadempimento del mutuatario. Tale norma prevede che la banca può invocare la risoluzione del contratto solo quando il ritardato pagamento si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive, precisando che costituisce ritardato pagamento quello effettuato tra il trentesimo e il centoottantesimo giorno dalla scadenza della rata. Si tratta di una disposizione imperativa posta a tutela del mutuatario inadempiente, che limita significativamente il potere risolutivo della banca rispetto ai principi generali.

Sul versante della tutela consumeristica, il riferimento normativo principale è costituito dal decreto legislativo 6 settembre 2005, numero 206, comunemente denominato Codice del Consumo. L’articolo 33 di tale decreto definisce come vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Il comma secondo dello stesso articolo fornisce un elenco esemplificativo di clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria.

L’articolo 34 del Codice del Consumo stabilisce che le clausole considerate vessatorie sono nulle, mentre il contratto rimane valido per il resto. Fondamentale è il comma quarto di tale articolo, che esclude l’applicazione della disciplina sulle clausole vessatorie per quelle che siano state oggetto di trattativa individuale. Incombe sul professionista l’onere di dimostrare che le clausole sono state effettivamente negoziate con il consumatore in modo specifico, serio ed effettivo.

La giurisprudenza di legittimità ha elaborato nel tempo importanti principi interpretativi in materia. La Corte di Cassazione ha chiarito che una cosa è l’avviso della cessione, necessario ai fini dell’efficacia della cessione, altra cosa è la prova dell’esistenza di un contratto di cessione e del suo contenuto. La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale esonera la cessionaria dal notificare la cessione al debitore ceduto, ma non prova di per sé l’esistenza della cessione stessa.

Per quanto concerne le clausole vessatorie, le Sezioni Unite hanno affermato che la disciplina consumeristica prescinde dal tipo contrattuale prescelto dalle parti e dalla natura della prestazione oggetto del contratto. La tutela del consumatore opera sia in caso di predisposizione di moduli o formulari per una serie indefinita di rapporti, sia nel caso di contratto singolarmente predisposto. L’obiettivo è garantire il consumatore dalla unilaterale predisposizione e sostanziale imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista.

La giurisprudenza ha inoltre precisato che l’esistenza di un atto pubblico notarile non esclude di per sé l’applicabilità della disciplina sulle clausole vessatorie. Il fatto che il contratto sia stato redatto per atto pubblico non implica automaticamente che tutte le clausole siano state oggetto di specifica trattativa individuale. Spetta al professionista dimostrare che il consumatore ha avuto la possibilità di incidere concretamente sul contenuto contrattuale, provocandone eventualmente la modifica.

DECISIONE DEL CASO E ANALISI

La Corte d’Appello di Venezia ha accolto l’appello proposto dalle mutuatarie, riformando integralmente la sentenza di primo grado e dichiarando la nullità dell’atto di precetto opposto. La decisione si articola su due profili principali: la prova della cessione del credito e, soprattutto, la vessatorietà della clausola risolutiva invocata dalla banca.