Pensione di reversibilità: la Cassazione chiarisce i criteri di ripartizione tra ex coniuge e vedova – Cassazione Civile 2025

La questione della ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge divorziato e coniuge superstite continua a essere uno dei temi più complessi e delicati del diritto di famiglia italiano. Una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha fatto chiarezza su aspetti fondamentali che da anni alimentavano incertezze interpretative tra operatori del diritto e cittadini coinvolti in queste delicate vicende familiari.

La vicenda che ha dato origine a questa importante decisione giurisprudenziale coinvolge una situazione molto frequente nella prassi: la presenza contemporanea di un ex coniuge divorziato e di un coniuge superstite, entrambi con diritto alla pensione di reversibilità del defunto. Si tratta di casistiche sempre più comuni in una società caratterizzata da frequenti seconde nozze e da famiglie ricomposte, dove i diritti pensionistici devono essere attentamente bilanciati tra soggetti che hanno vissuto momenti diversi della vita del dante causa.

Il caso specifico presentava caratteristiche particolarmente interessanti dal punto di vista giuridico: un matrimonio durato quasi quarant’anni seguito da divorzio, con assegnazione di un modesto assegno divorzile di circa 300 euro mensili, e un secondo matrimonio di durata molto più breve ma caratterizzato da particolari condizioni economiche della vedova. Questa configurazione ha permesso alla Corte di Cassazione di affrontare in maniera approfondita la complessa questione dei criteri di valutazione che i giudici devono utilizzare quando si trovano a dover ripartire la pensione di reversibilità tra più soggetti aventi diritto.

La pronuncia della Cassazione del 2025 assume particolare rilevanza perché interviene su un punto spesso frainteso nella giurisprudenza di merito: il ruolo dell’entità dell’assegno divorzile nella determinazione delle quote di pensione spettanti a ciascun beneficiario. Molti tribunali, infatti, tendevano a considerare l’assegno divorzile come un mero elemento di riferimento o, peggio ancora, come un tetto massimo invalicabile, perdendo di vista la più ampia finalità solidaristica che caratterizza l’istituto della pensione di reversibilità.

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Indice

  • ESPOSIZIONE DEI FATTI
  • NORMATIVA E PRECEDENTI
  • DECISIONE DEL CASO E ANALISI
  • ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI

La vicenda processuale analizzata dalla Cassazione prende avvio da una situazione familiare complessa ma tutt’altro che insolita nel panorama giuridico contemporaneo. Il sig. C.C., dopo aver contratto matrimonio nella metà degli anni ’70 con la sig.ra B.B., aveva vissuto una lunga relazione coniugale durata ben trentanove anni, che si era conclusa con il divorzio pronunciato nel 2014.

Durante questo lungo matrimonio erano nati due figli, circostanza che testimoniava la solidità e la durata del rapporto familiare originario. Al momento del divorzio, il Tribunale di Bergamo aveva stabilito a favore della ex moglie un assegno divorzile di modesta entità, pari a circa 300 euro mensili, successivamente rivalutato a circa 350 euro al momento del decesso dell’ex marito.

Successivamente al divorzio, il sig. C.C. aveva intrapreso una nuova relazione sentimentale con la sig.ra A.A., che aveva poi sposato nel 2016. Questo secondo matrimonio, pur essendo durato solo cinque anni (fino al decesso del marito avvenuto nel 2021), era stato preceduto da una convivenza prematrimoniale di tre anni, elemento che assumeva particolare rilevanza nella successiva valutazione giudiziaria.

Al momento della morte, il sig. C.C. era titolare di una pensione di vecchiaia erogata dall’INPS, che generava una pensione di reversibilità dell’importo complessivo di circa 1.900 euro mensili, pari al sessanta per cento della pensione diretta. La seconda moglie A.A. si trovava in una situazione di particolare disagio economico, tanto da essere costretta a richiedere il reddito di cittadinanza, mentre l’ex moglie B.B. percepiva una pensione propria di circa 650 euro netti mensili e aveva già raggiunto l’età di sessantanove anni.

La controversia nasceva dal fatto che entrambe le donne avevano presentato domanda di pensione di reversibilità all’INPS, che si era trovato nell’impossibilità di procedere all’erogazione senza un previo accertamento giudiziale delle rispettive quote spettanti. Questo aveva reso necessario l’intervento del Tribunale di Bergamo, chiamato a dirimere la questione applicando i criteri previsti dall’articolo 9 della legge 898 del 1970.

NORMATIVA E PRECEDENTI

Il quadro normativo di riferimento per la risoluzione della controversia trova il suo fondamento principale nell’articolo 9 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nota come legge sul divorzio, come modificata dalla legge n. 74 del 1987. Questa norma disciplina in maniera dettagliata i diritti del coniuge divorziato alla pensione di reversibilità, distinguendo diverse ipotesi a seconda della presenza o meno di un coniuge superstite avente diritto.

Il comma 2 dell’articolo 9 prevede che “in caso di morte dell’ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge rispetto al quale è stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e sempre che sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, alla pensione di reversibilità“.

Il comma 3, che assume particolare rilevanza nel caso in esame, stabilisce invece che “qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, una quota della pensione e degli altri assegni a questi spettanti è attribuita dal tribunale, tenendo conto della durata del rapporto, al coniuge rispetto al quale è stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che sia titolare dell’assegno“.

Un ruolo fondamentale nell’interpretazione di questa disposizione normativa è stato svolto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 419 del 4 novembre 1999, che ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’istituto. La Consulta ha chiarito che il criterio della durata del matrimonio, pur mantenendo un valore preponderante, non può essere l’unico parametro utilizzabile dal giudice, che deve invece operare una valutazione complessiva di tutti gli elementi rilevanti.

La giurisprudenza di legittimità ha successivamente sviluppato questi principi attraverso numerose pronunce, tra cui la Cassazione Sezioni Unite n. 22434 del 24 settembre 2018, che ha precisato come il diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato trova fondamento nel principio solidaristico finalizzato alla continuazione del sostegno economico precedentemente assicurato dall’assegno divorzile.

Particolare importanza riveste anche la Cassazione n. 21247 del 23 luglio 2021, che ha ribadito come la ripartizione debba essere effettuata ponderando ulteriori elementi oltre alla durata dei matrimoni, quali l’entità dell’assegno riconosciuto al coniuge divorziato, le condizioni economiche di entrambi i soggetti e l’eventuale durata della convivenza prematrimoniale.

DECISIONE DEL CASO E ANALISI

La Corte d’Appello di Brescia aveva confermato la decisione del Tribunale di primo grado, che aveva attribuito all’ex coniuge divorziata il 70% della pensione di reversibilità (pari a circa 1.200 euro mensili) e alla vedova il rimanente 30% (pari a circa 570 euro). Questa ripartizione era stata giustificata principalmente sulla base della significativa differenza nella durata dei matrimoni: 39 anni per il primo matrimonio contro appena 5 anni per il secondo.

Tuttavia, la Corte territoriale aveva commesso un errore metodologico fondamentale, come evidenziato dalla Suprema Corte di Cassazione. I giudici bresciani, infatti, pur riconoscendo formalmente la necessità di applicare i criteri correttivi individuati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, di fatto non avevano dato alcun peso specifico all’entità dell’assegno divorzile nella determinazione delle quote.

La Corte d’Appello aveva argomentato che la circostanza per cui l’ex moglie, con l’attribuzione del 70% della pensione di reversibilità, arrivasse a percepire una somma ben superiore all’ammontare dell’assegno divorzile precedentemente goduto “non rappresenta un elemento tale da giustificare una diversa modulazione delle percentuali“, richiamando alcune pronunce della Cassazione secondo cui l’entità dell’assegno divorzile non costituisce un limite legale alla quota di pensione attribuibile.

Questa interpretazione, secondo la Cassazione, era però riduttiva e non coglieva il vero significato dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. La Suprema Corte ha chiarito che il fatto che l’assegno divorzile non costituisca un limite massimo non significa che la sua entità non debba essere valutata in alcun modo dal giudice. Al contrario, la considerazione di questo elemento è “fondamentale per consentire l’esplicazione, nella concreta fattispecie, della funzione solidaristica propria dell’istituto“.

Il vizio della pronuncia impugnata consisteva proprio nell’aver creato “quell’astratto automatismo” che la Corte Costituzionale aveva escluso, limitandosi a considerare pressoché esclusivamente il criterio della durata del matrimonio senza operare quella ponderazione complessiva di tutti gli elementi rilevanti che la normativa e la giurisprudenza richiedono.

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