Riconciliazione dopo separazione: ammessa nuova separazione giudiziale – Cassazione 2025

Una vicenda familiare complessa approda dinanzi alla Suprema Corte, offrendo un importante chiarimento su una questione che tocca molte coppie italiane: cosa accade quando, dopo una separazione consensuale omologata, i coniugi si riconciliano per poi entrare nuovamente in crisi? La Cassazione, con ordinanza del 26 agosto 2025, ha affrontato il delicato tema dell’interesse ad agire in presenza di una precedente separazione seguita da riconciliazione, chiarendo che sussiste pieno diritto a ottenere una nuova pronuncia di separazione quando emerge la prova di una effettiva riconciliazione e di una successiva crisi coniugale. La decisione assume particolare rilevanza perché definisce i confini tra la possibilità di ripristinare il vincolo matrimoniale e il diritto di porre fine definitivamente a un’unione ormai irrimediabilmente compromessa.

La controversia ha avuto origine da una situazione tipica di quelle “seconde occasioni” che caratterizzano molti rapporti coniugali. Una coppia aveva ottenuto nel 2011 l’omologa di una separazione consensuale, ma successivamente i coniugi avevano ripreso la convivenza e la vita matrimoniale senza però formalizzare la riconciliazione attraverso la registrazione presso l’Ufficiale di Stato Civile. Dopo diversi anni di apparente ritrovata armonia, il rapporto era nuovamente entrato in crisi nel 2019-2020, spingendo la moglie a proporre nel 2020 una nuova domanda di separazione giudiziale. Il marito si era opposto, sostenendo che non vi fosse mai stata una vera riconciliazione e che, in ogni caso, la moglie non avesse interesse a ottenere una nuova pronuncia di separazione, essendo già separati dal 2011.

Il cuore della questione sottoposta all’esame della Cassazione riguarda due profili giuridici fondamentali: da un lato, l’accertamento dell’effettiva riconciliazione tacita dei coniugi dopo la separazione del 2011; dall’altro, la sussistenza dell’interesse ad agire per ottenere una nuova pronuncia di separazione quando ne esista già una precedente. La Suprema Corte ha dovuto valutare se la presenza di una separazione consensuale omologata nel 2011 privasse la moglie della legittimazione a chiedere una nuova separazione giudiziale, oppure se l’intervenuta riconciliazione e la successiva crisi giustificassero pienamente una nuova pronuncia giudiziale.

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Avv. Cosimo Montinaro segreteria@studiomontinaro.it

INDICE

  • ESPOSIZIONE DEI FATTI
  • NORMATIVA E PRECEDENTI
  • DECISIONE DEL CASO E ANALISI
  • ESTRATTO DELLA SENTENZA
  • TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA

ESPOSIZIONE DEI FATTI

La vicenda processuale trae origine da un matrimonio contratto in regime di separazione dei beni, dal quale erano nati due figli. Nel 2011 il Tribunale di Pavia aveva omologato una separazione consensuale tra i coniugi, che avrebbe dovuto segnare la fine del rapporto matrimoniale. Tuttavia, come spesso accade nelle dinamiche familiari, la storia non si era conclusa con quella pronuncia. Secondo quanto affermato dalla moglie, dopo la separazione i coniugi si erano riconciliati, riprendendo la convivenza e la vita matrimoniale in tutti i suoi aspetti, sia materiali che spirituali, senza però formalizzare tale riconciliazione attraverso la dichiarazione prevista dalla legge.

Questa situazione di fatto si era protratta per diversi anni, durante i quali la coppia aveva continuato a vivere come marito e moglie, gestendo insieme un’attività di albergo-ristorante e prendendosi cura congiuntamente dei due figli. La vita familiare sembrava essere tornata alla normalità, con la coppia che partecipava insieme a eventi sociali, faceva viaggi e manteneva rapporti con parenti e amici come una famiglia unita. Tuttavia, intorno al 2019-2020, il rapporto era nuovamente entrato in crisi, questa volta in modo definitivo e irreversibile secondo quanto sostenuto dalla moglie.

Con ricorso depositato il 22 settembre 2020, la moglie si rivolgeva al Tribunale di Pavia chiedendo la pronuncia di separazione giudiziale, l’affido condiviso dei due figli minori ancora presenti nel nucleo familiare, l’assegnazione della casa coniugale di cui era proprietaria, il collocamento prevalente dei minori presso di lei con regolamentazione del diritto di visita del padre, e la previsione di un contributo al mantenimento dei figli e di se stessa a carico del marito. La donna fondava la propria domanda sull’assunto che nel 2010 era stata omologata una separazione consensuale, ma che era seguita una riconciliazione dei coniugi e successivamente una nuova crisi coniugale che la portava a proporre la nuova domanda di separazione.

Il 19 febbraio 2021 il marito depositava comparsa di costituzione e risposta, con cui premetteva di avere promosso innanzi allo stesso Tribunale di Pavia, prima di avere conoscenza della pendenza del procedimento avviato dalla moglie, una domanda di modifica delle condizioni di divorzio, poi dichiarata inammissibile. L’uomo negava categoricamente che vi fosse stata alcuna riconciliazione dopo la separazione del 2011, deducendo che vi era stata soltanto una collaborazione saltuaria per un breve periodo di tempo, legata esclusivamente alla gestione comune dell’attività di albergo-ristorante e alla custodia dei figli, senza alcuna ripresa della comunione materiale e spirituale tipica del vincolo matrimoniale. Eccepiva pertanto l’inammissibilità e improponibilità del ricorso della moglie per difetto di interesse ad agire, formulando comunque in via subordinata le proprie richieste di merito.

Il Tribunale di Pavia, dopo aver adottato i provvedimenti presidenziali, acquisito documentazione, escusso i testi ammessi dalle parti, sentito i due figli minori e acquisito le relazioni dei servizi sociali relative alle condizioni dei minori, pronunciava la separazione dei coniugi con sentenza che disponeva l’affidamento condiviso dei figli e il collocamento prevalente presso la madre, adottando ulteriori misure nell’interesse dei minori e disciplinando il contributo al loro mantenimento da parte del padre. Con riferimento all’eccezione di inammissibilità e improponibilità del ricorso avanzata dal marito, il Tribunale riteneva che la riconciliazione intervenuta dopo la separazione consensuale del 2011, anche se non registrata sull’atto di matrimonio, fosse stata ampiamente dimostrata dalla ricorrente attraverso una serie di elementi probatori.

In particolare, il giudice di primo grado aveva ritenuto particolarmente significativi i biglietti di auguri scritti dal marito alla moglie, il materiale fotografico ritraente una vita di coppia successiva alla separazione, e soprattutto le testimonianze di persone che avevano frequentato la coppia e che avevano confermato che i due erano sempre stati considerati una coppia matrimoniale da tutti coloro che li conoscevano. Inoltre, il Tribunale aveva evidenziato come il fatto che il marito avesse dedotto che la moglie lo aveva ripetutamente tradito, cercando di dimostrare senza riuscirvi che la donna aveva avuto numerose relazioni dopo la separazione, confermasse indirettamente che la coppia era ancora unita e che l’eventuale relazione con altri uomini era vissuta dal marito come un vero e proprio tradimento coniugale. Infine, anche i figli non avevano avuto alcuna consapevolezza della separazione dei genitori risalente al 2011, collocando invece la separazione dei propri genitori soltanto nel periodo 2019-2020.

Contro la sentenza del Tribunale di Pavia, il marito proponeva appello dinanzi alla Corte d’Appello di Milano, contestando sia l’accertamento della riconciliazione sia la sussistenza dell’interesse ad agire della moglie. La Corte d’Appello, con sentenza numero 939 del 27 marzo 2024, respingeva l’impugnazione, confermando integralmente la decisione di primo grado. I giudici di secondo grado ritenevano che la documentazione prodotta dalla moglie e gli esiti dell’istruttoria orale, valutati complessivamente, conducevano a ritenere dimostrata la riconciliazione dei coniugi dopo la separazione del 2011 e la successiva cessazione della comunione spirituale e materiale intervenuta soltanto nel 2019.

Avverso tale pronuncia il marito proponeva ricorso per cassazione, affidato a due motivi di doglianza. Con il primo motivo lamentava la violazione dell’articolo 100 del codice di procedura civile e vizi di motivazione, sostenendo che la Corte d’Appello avrebbe reso una motivazione oscura, apodittica e assente in ordine all’eccezione formulata sul difetto di interesse della moglie a richiedere una nuova pronuncia di separazione. Con il secondo motivo denunciava la violazione degli articoli 111 della Costituzione e 132 del codice di procedura civile per essere la sentenza impugnata priva di motivazione sul contenuto delle prove orali e documentali poste a fondamento della decisione. L’intimata si difendeva con controricorso ed entrambe le parti depositavano memorie difensive.

NORMATIVA E PRECEDENTI

La questione giuridica sottoposta all’esame della Cassazione richiama in primo luogo l’applicazione degli articoli 154 e 157 del codice civile, che disciplinano rispettivamente la riconciliazione durante il procedimento di separazione e la cessazione degli effetti della sentenza di separazione per riconciliazione successiva. L’articolo 154 stabilisce che la riconciliazione tra i coniugi comporta l’abbandono della domanda di separazione personale già proposta, mentre l’articolo 157 prevede che i coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.

La giurisprudenza ha chiarito che la riconciliazione può essere espressa o tacita. La riconciliazione espressa si manifesta attraverso una dichiarazione formale resa dinanzi all’Ufficiale di Stato Civile del Comune dove fu celebrato il matrimonio o dove risiede uno dei coniugi, oppure dinanzi all’autorità diplomatica o consolare per i residenti all’estero. La riconciliazione tacita, invece, si desume da comportamenti concludenti che rivelino in modo inequivocabile la volontà di entrambi i coniugi di ripristinare la piena comunione materiale e spirituale che caratterizza il vincolo matrimoniale. Non sono sufficienti rapporti occasionali o sporadici, né la mera collaborazione per la gestione di interessi comuni o per l’educazione dei figli.

Per accertare l’effettiva riconciliazione tacita, la giurisprudenza ha elaborato una serie di indici sintomatici che devono essere valutati complessivamente dal giudice. Tra questi assumono particolare rilevanza: la ripresa stabile e continuativa della convivenza sotto lo stesso tetto; la ripresa dei rapporti sessuali; lo svolgimento di una vita sociale comune, con la partecipazione congiunta a eventi familiari e sociali; la presentazione come coppia unita nei rapporti con parenti, amici e conoscenti; la condivisione di periodi di vacanza; lo scambio di manifestazioni affettive attraverso biglietti, messaggi o regali; la collaborazione nella gestione della famiglia e nell’educazione dei figli non come genitori separati ma come coppia unita.

L’articolo 157, secondo comma, del codice civile stabilisce inoltre un principio fondamentale: la separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione. Questo significa che, una volta accertata la riconciliazione, i fatti che avevano condotto alla prima separazione non possono più essere invocati per fondare una nuova domanda di separazione, potendo assumere rilevanza soltanto quali elementi di contesto per valutare i nuovi fatti sopravvenuti. La ratio di tale disposizione risiede nella volontà del legislatore di dare piena efficacia alla scelta riconciliativa dei coniugi, impedendo che il passato possa essere continuamente rievocato per minare la stabilità del rapporto ricostituito.

Sul piano processuale, assume rilevanza centrale l’articolo 100 del codice di procedura civile, che subordina l’esercizio dell’azione alla sussistenza di un interesse ad agire. Secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale, l’interesse ad agire consiste nella necessità di ottenere un provvedimento giurisdizionale per conseguire un’utilità o un vantaggio non altrimenti ottenibile. Nel caso di domanda di separazione proposta in presenza di una precedente separazione già pronunciata e omologata, occorre verificare se sussista comunque un interesse giuridicamente apprezzabile a ottenere una nuova pronuncia che accerti l’intervenuta riconciliazione e pronunci una nuova separazione basata su fatti successivi.

La giurisprudenza ha affermato che l’interesse all’azione di separazione giudiziale dopo una precedente separazione consensuale omologata sussiste quando sia necessario accertare l’intervenuta riconciliazione e definire le nuove condizioni della separazione sulla base dei fatti successivi. Tale interesse trova fondamento nell’esigenza di eliminare ogni dubbio sulla situazione giuridica dei coniugi, di definire con certezza i rispettivi diritti e doveri, di regolamentare l’affidamento e il mantenimento dei figli in relazione alle mutate condizioni, e di disciplinare gli aspetti patrimoniali ed economici conseguenti alla nuova crisi. Inoltre, la nuova pronuncia di separazione ha rilevanti conseguenze sul piano della decorrenza dei termini per la richiesta di divorzio, che ricominciano a decorrere ex novo dalla data della nuova separazione.

Per quanto riguarda i vizi di motivazione censurabili in sede di legittimità, la riforma dell’articolo 360 numero 5 del codice di procedura civile, operata dal decreto-legge numero 83 del 2012, ha circoscritto il sindacato di legittimità sulla motivazione ai soli casi di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti. Le Sezioni Unite della Cassazione, con le sentenze numeri 8053 e 8054 del 2014, hanno chiarito che dopo tale riforma è divenuta denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé. Resta quindi il controllo sull’esistenza, sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza, e sulla coerenza, sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, della motivazione.

La violazione degli articoli 111 della Costituzione e 132 numero 4 del codice di procedura civile sussiste quando la pronuncia riveli un’obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito. Ricorre il vizio in questione quando la decisione, benché graficamente esistente, non rende percepibile il fondamento della decisione perché reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con ipotetiche congetture.

DECISIONE DEL CASO E ANALISI

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del marito, confermando la legittimità della pronuncia di separazione giudiziale emessa in presenza di una precedente separazione consensuale seguita da riconciliazione. Il ragionamento della Cassazione si articola su due piani argomentativi distinti, affrontando separatamente le due censure proposte dal ricorrente. La decisione assume particolare rilevanza perché chiarisce definitivamente che l’interesse ad agire per una nuova separazione sussiste pienamente quando sia necessario accertare l’intervenuta riconciliazione e pronunciare una nuova separazione basata su fatti successivi.