Una decisione che cambierà profondamente gli equilibri economici nei rapporti patrimoniali tra ex coniugi è stata pronunciata dalla Corte Suprema di Cassazione nel corso del 2025. La questione riguarda uno dei diritti più delicati e controversi nell’ambito del diritto di famiglia: il diritto dell’ex coniuge divorziato di ottenere una quota del trattamento di fine rapporto maturato dall’altro durante il matrimonio.
La vicenda oggetto del pronunciamento presenta caratteristiche particolarmente significative che toccano da vicino migliaia di famiglie italiane. Si tratta di una coppia sposata nel 1992 che, dopo quasi trent’anni di matrimonio, ha dovuto affrontare le complesse dinamiche della dissoluzione del vincolo matrimoniale e della conseguente ridefinizione degli assetti patrimoniali.
Il caso presenta elementi di particolare interesse per chi si trova ad affrontare le problematiche connesse alla separazione e al divorzio, soprattutto quando uno dei coniugi abbia maturato durante il matrimonio significative posizioni previdenziali integrative. La questione centrale ruota intorno alla natura giuridica e agli effetti del conferimento del TFR in fondi di previdenza complementare, una pratica sempre più diffusa tra i lavoratori italiani che scelgono di incrementare la propria pensione integrativa attraverso questi strumenti finanziari.
La controversia è nata quando l’ex moglie, titolare di assegno divorzile, ha rivendicato il proprio diritto a ottenere la quota del quaranta per cento del trattamento di fine rapporto che il marito aveva versato in un fondo di previdenza complementare. La donna sosteneva che tale somma, essendo maturata durante il matrimonio, dovesse essere considerata alla stregua di un normale TFR e quindi soggetta alla ripartizione prevista dalla legge.
L’ex marito, dal canto suo, aveva fatto una scelta apparentemente legittima ma che si è rivelata decisiva per l’esito della controversia. Aveva infatti deciso di versare l’intero importo del proprio TFR pregresso nel Fondo Previdenziale Previndai, beneficiando delle disposizioni normative che consentono tale operazione. Questa decisione era stata presa in un momento particolare: pochi mesi prima dell’avvio del procedimento di divorzio e nell’imminenza del collocamento a riposo.
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Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda processuale ha avuto origine da una separazione coniugale che ha coinvolto due persone sposate da quasi tre decenni. Il matrimonio concordatario era stato celebrato nell’anno 1992, dando vita a una unione matrimoniale che si sarebbe protratta per circa ventisei anni prima dell’inizio delle procedure di scioglimento del vincolo.
Il procedimento giudiziario è iniziato nel maggio 2018, quando l’ex marito ha depositato ricorso presso il Tribunale di Lodi per ottenere la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio. La causa ha seguito un iter particolarmente complesso, caratterizzato da diverse fasi processuali e da questioni economiche di notevole rilevanza per entrambi i coniugi.
Il Tribunale di primo grado, con sentenza non definitiva del luglio 2021, ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio e ha stabilito un assegno divorzile mensile di ottocento euro in favore dell’ex moglie. Contestualmente, il giudice ha revocato l’assegnazione della casa coniugale che era stata precedentemente attribuita alla donna. Tuttavia, la questione non si è conclusa con questa prima pronuncia, poiché nel corso del giudizio è emersa una problematica di particolare complessità giuridica.
Durante lo svolgimento del procedimento, infatti, l’ex marito è stato collocato in pensione nel novembre 2020, circostanza che ha fatto sorgere la questione relativa al diritto della ex moglie di ottenere una quota del TFR. Per questo motivo, lo stesso Tribunale ha dovuto rimettere la causa sul ruolo per decidere specificamente sulla richiesta avanzata dalla donna di condanna al pagamento del quaranta per cento del trattamento di fine rapporto.
La Corte d’Appello di Milano, adita dalla ex moglie che aveva impugnato la sentenza di primo grado, ha preso una decisione di particolare interesse. Considerando che l’ex marito, attraverso la scelta di versare il proprio TFR in un fondo di previdenza complementare, aveva iniziato a percepire un contributo pensionistico maggiorato, ha stabilito un incremento del cinquanta per cento dell’assegno divorzile. L’importo mensile è così passato da ottocento euro a milleduecento euro mensili.
Nel corso dell’istruttoria processuale è emerso un elemento fattuale di cruciale importanza per la definizione della controversia. L’ex marito, a partire dal primo giugno 1996, aveva iniziato a versare nel Fondo Previdenziale Previndai una quota del proprio TFR maturando. Successivamente, aveva deciso di far confluire nello stesso fondo l’intero importo residuo del TFR già maturato presso l’azienda datrice di lavoro. Questa operazione era stata completata prima dell’inizio del giudizio di divorzio, specificamente nell’aprile 2018.
NORMATIVA E PRECEDENTI
Il quadro normativo di riferimento per la risoluzione della controversia trova il proprio fondamento principale nell’articolo 12 bis della Legge numero 898 del 1970, introdotto dalla Legge numero 74 del 1987. Tale disposizione rappresenta una delle innovazioni più significative nella disciplina del diritto di famiglia e ha lo scopo di garantire una più equa ripartizione degli effetti economici derivanti dallo scioglimento del matrimonio.
La norma stabilisce che “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza“. Questa previsione legislativa ha introdotto un principio compensativo che mira a riequilibrare le posizioni economiche degli ex coniugi.
L’articolo 2120 del Codice Civile costituisce il secondo pilastro normativo della questione, definendo la natura e le caratteristiche del trattamento di fine rapporto. La disposizione prevede che “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato” il lavoratore ha diritto al TFR, indipendentemente dalle motivazioni che hanno determinato la cessazione del rapporto lavorativo. La giurisprudenza consolidata ha chiarito che il TFR ha natura retributiva, costituendo un elemento della retribuzione il cui pagamento viene differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
La disciplina delle forme pensionistiche complementari trova invece il proprio riferimento normativo nel Decreto Legislativo numero 252 del 2005, emanato in attuazione della legge-delega numero 243 del 2004. Questo intervento normativo ha operato una riforma organica del settore previdenziale complementare, introducendo il principio di autonomia funzionalizzata e consentendo ai lavoratori di destinare il proprio TFR a forme di previdenza integrativa.
L’articolo 8 del decreto stabilisce che il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere attuato mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro, nonché attraverso il conferimento del TFR maturando. La Legge numero 244 del 2007 ha successivamente introdotto la possibilità di conferire al fondo anche il TFR già maturato e accantonato, entro determinati limiti e secondo specifiche modalità operative.
La giurisprudenza di legittimità ha sviluppato nel corso degli anni un orientamento consolidato in materia di applicazione dell’articolo 12 bis. La Corte costituzionale, con la sentenza numero 23 del 1991, ha chiarito che la ratio della norma è quella di dare “una più ampia e sistematica tutela al soggetto economicamente più debole con l’approntamento di incisivi strumenti giuridici a garanzia di posizioni economicamente pregiudicate dagli effetti della cessazione del matrimonio“.