Niente mantenimento al figlio maggiorenne che non cerca lavoro

Niente mantenimento al figlio maggiorenne che non cerca lavoro

Cassazione Civile, Sez. VI – 1, Ordinanza, 08/02/2023, n. 3769

La cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti dev’essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, all’effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonché, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, da parte dell’avente diritto, dal momento del raggiungimento della maggiore età

Avv. Cosimo Montinaro


Estratto della sentenza

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

con l’unico motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia l’illogicità e la carenza di motivazione del decreto impugnato, per aver ritenuto che il figlio avesse raggiunto l’autosufficienza economica, nonostante la modestia del reddito da lui percepito in virtù dello svolgimento di attività lavorativa stagionale, e per aver ritenuto sussistente un peggioramento delle condizioni economiche del padre, sulla base delle risultanze delle dichiarazioni dei redditi, senza provvedere ad alcun accertamento in ordine all’attività lavorativa da lui svolta;

che il motivo è inammissibile;

che, ai fini dell’esclusione dell’obbligo di corrispondere l’assegno dovuto dal controricorrente per il mantenimento del figlio, il decreto impugnato non si è infatti limitato a dare atto della capacità di quest’ultimo di procurarsi autonomamente i mezzi necessari per il proprio sostentamento, comprovata dallo svolgimento di un’attività lavorativa, ma ha altresì rilevato la mancanza di specifiche allegazioni in ordine alle effettive possibilità di lavoro del giovane ed all’impegno da lui profuso nella ricerca di un’occupazione più stabile e confacente alle sue aspirazioni, anche alla luce dell’età da lui ormai raggiunta e del presumibile completamento del suo percorso formativo;

che il rilievo conferito ai predetti elementi, nell’ambito di un ragionamento pienamente coerente e consequenziale sotto il profilo logico, si pone perfettamente in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte di quest’ultimo, ma perdura finchè il genitore interessato non dia prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta (cfr. Cass., Sez. VI, 15/02/2012, n. 2171; Cass., Sez. I, 8/02/2012, n. 1773);

che, nell’ambito di tale orientamento, è stato infatti chiarito che la cessazione dell’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti dev’essere fondata su un accertamento di fatto che abbia riguardo all’età, allo effettivo conseguimento di un livello di competenza professionale e tecnica, all’impegno rivolto verso la ricerca di un’occupazione lavorativa nonchè, in particolare, alla complessiva condotta personale tenuta, da parte dell’avente diritto, dal momento del raggiungimento della maggiore età (cfr. Cass., Sez. I, 3/12/2021, n. 38366; 22/06/2016, n. 12952; Cass., Sez. VI, 5/03/2018, n. 5088);

che è stato altresì precisato che il mantenimento del figlio maggiorenne è da escludersi ove questi abbia iniziato ad espletare un’attività lavorativa, dimostrando quindi il raggiungimento di un’adeguata capacità, senza che possa rilevare la sopravvenienza di circostanze ulteriori che, pur determinando l’effetto di renderlo momentaneamente privo di sostentamento economico, non possono far risorgere un obbligo di mantenimento, i cui presupposti siano già venuti meno, e potendo in tal caso residuare, in capo ai genitori, al massimo un obbligo alimentare (cfr. Cass., Sez. I, 27/01/2014, n. 1585; 28/ 01/2008, n. 1761);

che il rilievo in tal modo attribuito alla capacità di lavoro del figlio, desunta dal titolo di studio da lui eventualmente conseguito e dalla sua qualificazione professionale, fa apparire ininfluente l’eventuale inadeguatezza del reddito da lui attualmente percepito, a meno che non sia stata dedotta e dimostrata l’impossibilità di reperire un’occupazione più remunerativa e conforme alle sue aspirazioni, nonostante l’impegno a tal fine profuso;

che, nel ritenere sussistente un peggioramento delle condizioni economiche dell’obbligato, il decreto impugnato non si è poi limitato ad evidenziare il reddito mensile di quest’ultimo, risultante dalla documentazione fiscale prodotta in giudizio, ma ha posto in risalto altre circostanze sopravvenute alla pronuncia di divorzio ed incidenti sulla sua situazione personale e familiare, quali la nascita di altri due figli ed il deterioramento delle condizioni di salute derivanti da un infarto;

che, nel contestare tale accertamento, la ricorrente non è in grado d’indicare ulteriori elementi eventualmente emersi dal dibattito processuale ed indebitamente trascurati dal decreto impugnato, ma si limita a lamentare l’omesso espletamento d’indagini in ordine alla situazione economico-patrimoniale dell’obbligato, senza neppure precisare gli elementi di fatto allegati a sostegno della relativa istanza, con la conseguenza che la censura risulta, sotto tale profilo, priva di specificità;

che, a seguito della riformulazione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 da parte dell’art. 54, comma 1, lett. b), , convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, la mera insufficienza delle ragioni addotte a fondamento della decisione non può d’altronde considerarsi ulteriormente deducibile come motivo di ricorso per cassazione, a tal fine occorrendo che sia stato omesso l’esame di un fatto storico, principale o secondario, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e risulti idoneo ad orientare in senso diverso la decisione, ed assumendo altrimenti rilievo, ai fini dell’impugnazione per vizio di motivazione, soltanto l’anomalia motivazionale che si converte nel difetto del requisito di cui all’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., vale a dire l’inesistenza della motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico, la mera apparenza o la perplessità della stessa o la sua intrinseca contraddittorietà, purchè risulti talmente grave da impedire la ricostruzione del percorso logico seguito per giungere alla decisione (cfr. Cass., Sez. VI, 25/09/2018, n. 22598; Cass., Sez. III, 12/10/2017, n. 23940; Cass., Sez. Un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054);

che il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

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