La questione dell’assegnazione della casa coniugale rappresenta uno dei profili più delicati e controversi nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio. Quando una coppia decide di porre fine alla propria unione, il destino dell’abitazione familiare diventa spesso oggetto di aspre contese, soprattutto quando vi sono figli minori da tutelare. La recente pronuncia della Corte di Cassazione del 2025 ha affrontato una fattispecie particolarmente interessante, offrendo importanti chiarimenti sui presupposti che legittimano il mantenimento dell’assegnazione della casa familiare in favore del genitore collocatario, anche quando quest’ultimo si trovi temporaneamente a risiedere altrove per specifiche esigenze legate ai figli.
Il caso sottoposto all’esame della Suprema Corte traeva origine da una complessa vicenda familiare nella quale il padre dei minori contestava la legittimità del provvedimento di assegnazione della casa familiare alla madre, sostenendo che quest’ultima avesse di fatto abbandonato l’immobile trasferendosi stabilmente presso altra abitazione. La peculiarità della fattispecie risiedeva nel fatto che la madre si era effettivamente domiciliata durante i mesi invernali presso l’abitazione dei propri genitori, situata in un diverso comune, al fine di consentire al figlio minore di frequentare la scuola elementare in quel territorio. Tale circostanza, secondo la prospettazione del ricorrente, avrebbe dovuto comportare la revoca dell’assegnazione per cessazione della stabile occupazione dell’immobile.
La decisione dei giudici di legittimità si inserisce in un filone giurisprudenziale consolidato che mira a tutelare primariamente l’interesse dei figli alla conservazione dell’“habitat domestico”, inteso come centro degli affetti e delle consuetudini familiari. La Corte ha dovuto bilanciare tale esigenza con la necessità di verificare l’effettiva sussistenza del presupposto fondamentale dell’assegnazione, vale a dire la stabile convivenza del genitore assegnatario con i figli all’interno dell’abitazione familiare. La pronuncia offre spunti di riflessione significativi sulla nozione di “abbandono” della casa coniugale e sui criteri che consentono di distinguere un trasferimento definitivo da una mera domiciliazione temporanea dettata da esigenze contingenti e meritevoli di tutela.
Un ulteriore profilo di interesse della decisione riguarda la posizione della figlia maggiorenne che, intervenuta nel giudizio, aveva aderito alle richieste paterne finalizzate alla revoca dell’assegnazione. I giudici hanno dovuto valutare se l’allontanamento volontario di tale figlia dalla casa familiare, avvenuto ormai da diversi anni, potesse incidere sulla legittimità del provvedimento di assegnazione in favore della madre, con la quale continuava a convivere il figlio minore. La soluzione adottata dalla Corte conferma l’orientamento secondo cui l’assegnazione resta giustificata finché almeno uno dei figli conviva stabilmente con il genitore collocatario.
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INDICE
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
- TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA ⬇️
ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda processuale che ha condotto alla pronuncia della Suprema Corte prende avvio da un giudizio di separazione tra due coniugi, all’esito del quale il Tribunale aveva disposto l’affidamento condiviso dei figli minori, collocandoli prevalentemente presso la madre e assegnando a quest’ultima la casa familiare. Il padre era stato onerato del versamento di un contributo mensile per il mantenimento dei figli in favore della moglie. Tale assetto veniva successivamente impugnato dinanzi alla Corte d’Appello dal marito, il quale lamentava che le circostanze di fatto fossero mutate rispetto al momento della pronuncia di primo grado.
In particolare, il ricorrente evidenziava come la moglie avesse di fatto cessato di abitare stabilmente nella casa coniugale, essendosi trasferita presso l’abitazione dei propri genitori situata in un diverso comune. Tale trasferimento, secondo la prospettazione dell’appellante, non aveva carattere temporaneo ma si era ormai consolidato nel tempo, tanto che il figlio minore era stato iscritto alla scuola elementare del paese ove risiedevano i nonni materni sin dal 2019. La circostanza che la madre avesse scelto di iscrivere il bambino in un istituto scolastico diverso da quello del comune ove era ubicata la casa familiare costituiva, ad avviso del padre, la prova inequivocabile dell’abbandono dell’immobile e della volontà di stabilirsi definitivamente altrove.
A sostegno della propria domanda di revoca dell’assegnazione, il ricorrente produceva altresì la relazione del consulente tecnico d’ufficio nominato nel procedimento, dalla quale emergeva che la madre durante il periodo invernale risiedeva effettivamente presso l’abitazione dei propri genitori per consentire al figlio di frequentare regolarmente la scuola. Tale domiciliazione stagionale, protrattasi per diversi anni scolastici, avrebbe dovuto essere qualificata come un vero e proprio trasferimento, con conseguente venir meno del presupposto della stabile occupazione richiesto dalla legge per il mantenimento dell’assegnazione.
Nel giudizio di appello era intervenuta altresì la figlia maggiore della coppia, la quale aveva aderito alle richieste paterne. Tale figlia, divenuta maggiorenne nelle more del giudizio, aveva da tempo scelto di vivere stabilmente con il padre, allontanandosi volontariamente dalla casa familiare già dalle prime fasi della separazione dei genitori. L’intervento era finalizzato a sostenere la domanda di revoca dell’assegnazione, sul presupposto che ormai nessuno dei figli convivesse effettivamente con la madre nell’immobile in questione. La Corte d’Appello qualificava tale intervento come adesivo alle ragioni del padre, ritenendolo ammissibile nei limiti della domanda già proposta.
La Corte territoriale respingeva tuttavia la domanda di revoca dell’assegnazione, ritenendo che il trasferimento della madre presso i genitori avesse carattere meramente temporaneo e fosse legato a una precisa esigenza scolastica del figlio minore. I giudici valorizzavano le relazioni dei servizi sociali che avevano seguito la famiglia, dalle quali emergeva che la donna aveva fatto ritorno nella casa familiare già nell’estate del 2020, confermando così la natura stagionale e non definitiva dell’allontanamento. La scelta di iscrivere il figlio nella scuola del paese dei nonni materni era stata peraltro condivisa da entrambi i genitori, non risultando alcuna contestazione del padre sul punto.
NORMATIVA E PRECEDENTI
La disciplina dell’assegnazione della casa familiare trova il proprio fondamento normativo nell’art. 337-sexies del codice civile, introdotto dal D.Lgs. n. 154 del 2013 nell’ambito della riforma della filiazione. Tale disposizione stabilisce che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli, prevedendo che dell’assegnazione il giudice tenga conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori. La norma ha sostituito il previgente art. 155-quater c.c., confermando l’orientamento legislativo volto a privilegiare la tutela della prole rispetto agli interessi patrimoniali dei coniugi.
La giurisprudenza della Cassazione ha costantemente affermato che l’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza di tutelare l’interesse dei figli minori, o maggiorenni non autosufficienti, alla conservazione dell’habitat domestico. Tale nozione, elaborata dalla dottrina e recepita dalla giurisprudenza, identifica il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare. L’assegnazione mira quindi a garantire ai figli la permanenza nell’ambiente in cui sono cresciuti, evitando che alla disgregazione del nucleo familiare si aggiunga il trauma dello sradicamento dal contesto abitativo di riferimento.
Quanto ai presupposti dell’assegnazione, la giurisprudenza richiede che il genitore assegnatario conviva stabilmente con almeno uno dei figli all’interno dell’abitazione familiare. Tale requisito deve persistere per tutta la durata dell’assegnazione, con la conseguenza che il venir meno della convivenza determina la cessazione del diritto al godimento dell’immobile. Sul punto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno chiarito che l’assegnazione non può essere disposta, né può essere mantenuta, quando manchino figli conviventi con il genitore assegnatario, dovendosi in tal caso procedere alla divisione dell’immobile secondo le regole ordinarie.
La pronuncia in esame richiama altresì il consolidato orientamento secondo cui la valutazione circa la sussistenza dei presupposti dell’assegnazione costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto nei ristretti limiti previsti dall’art. 360, n. 5, c.p.c., come novellato dalla legge n. 134 del 2012. Secondo l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo può essere dedotto soltanto quando il giudice abbia completamente pretermesso la considerazione di un fatto storico principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali.
Con riferimento al profilo del contributo al mantenimento dei figli, la decisione richiama l’art. 337-ter, comma 4, c.c., che disciplina i criteri per la determinazione dell’assegno. Tale norma, riproduttiva del previgente art. 155, comma 4, c.c., stabilisce che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito, demandando al giudice la determinazione di un eventuale assegno periodico sulla base di specifici parametri quali le attuali esigenze del figlio, il tenore di vita goduto in costanza di convivenza, i tempi di permanenza presso ciascun genitore, le risorse economiche di entrambi e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascuno.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dal padre, ha articolato la propria decisione sui tre motivi dedotti, pervenendo a esiti differenziati. Il primo motivo, con il quale si censurava la conferma dell’assegnazione della casa coniugale alla madre, è stato dichiarato inammissibile. Il secondo motivo, relativo alla mancata previsione di un contributo al mantenimento a carico della madre per la figlia maggiorenne convivente con il padre, è stato accolto. Il terzo motivo, concernente la decorrenza della revoca del contributo per la figlia, è stato rigettato.
Con riferimento alla questione dell’assegnazione della casa familiare, la Suprema Corte ha confermato la valutazione operata dalla Corte d’Appello, ritenendo che il trasferimento della madre presso i genitori avesse carattere temporaneo e fosse funzionale a una precisa esigenza scolastica del figlio minore. I giudici di legittimità hanno sottolineato come la Corte territoriale avesse correttamente valorizzato le risultanze istruttorie, in particolare le relazioni dei servizi sociali che attestavano il rientro della donna nella casa familiare già nell’estate del 2020. La circostanza che durante i mesi invernali la madre si domiciliasse presso l’abitazione dei propri genitori per consentire al figlio di frequentare la scuola non poteva essere qualificata come abbandono definitivo dell’immobile.
