Licenziamento orale nel rapporto di lavoro: nullità e diritto alla reintegra nel posto – Corte d’Appello di Firenze 2025

Nel panorama giuslavoristico italiano, la forma del licenziamento rappresenta un elemento fondamentale per la validità del recesso datoriale, in quanto requisito posto a tutela del lavoratore che deve essere messo nelle condizioni di conoscere con certezza i motivi del provvedimento espulsivo per potersi adeguatamente difendere. Una recente pronuncia della Corte d’Appello di Firenze, emessa in sede di giudizio di rinvio dalla Cassazione, ha offerto significativi spunti di riflessione su questo tema, affrontando il caso di un licenziamento intimato in forma orale, in violazione delle garanzie formali previste dalla legge.

La vicenda processuale, caratterizzata da un articolato iter giudiziario, ha visto contrapposti un autista di autobus e la società datrice di lavoro, la quale aveva comunicato il licenziamento per giusta causa a seguito di presunte irregolarità nell’inserimento di dati relativi all’orario di lavoro. Il punto nodale della controversia è rappresentato dall’accertamento delle modalità con cui il recesso datoriale era stato comunicato al dipendente, questione che ha condotto a una pronuncia di nullità del licenziamento con conseguente diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

Questa sentenza si inserisce nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale che riafferma il principio secondo cui il licenziamento intimato in forma orale è nullo e comporta l’applicazione della tutela reintegratoria piena. La decisione, particolarmente articolata nelle sue motivazioni, evidenzia come l’onere della prova in merito alla corretta comunicazione del licenziamento gravi sul datore di lavoro e come tale prova debba essere fornita nel rispetto dei limiti probatori previsti dalla legge, con particolare riferimento all’inammissibilità della prova testimoniale per dimostrare l’esistenza di un atto per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam.

Il caso offre inoltre interessanti spunti di riflessione in merito alla quantificazione dell’indennità risarcitoria conseguente alla dichiarazione di nullità del licenziamento, con particolare riferimento alla detrazione dell’aliunde perceptum, ossia di quanto il lavoratore ha percepito svolgendo altre attività lavorative nel periodo di estromissione dall’azienda.

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Indice

  • ESPOSIZIONE DEI FATTI
  • NORMATIVA E PRECEDENTI
  • DECISIONE DEL CASO E ANALISI
  • ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI

La vicenda giudiziaria prende avvio con una contestazione disciplinare mossa il 16 luglio 2019 dalla società datrice di lavoro nei confronti di un proprio dipendente, autista di autobus. Nello specifico, veniva contestato al lavoratore di aver indebitamente registrato dati non veritieri in due distinti periodi: dal 5 al 7 luglio 2019, inserendo manualmente la mansione “Altri lavori” anche durante periodi in cui godeva dei riposi settimanali, e l’8 luglio 2019, inserendo manualmente le mansioni “Disponibilità” ed “Altri lavori” in un periodo in cui non stava lavorando e aveva la piena disponibilità del suo tempo.

A seguito di tale contestazione, il lavoratore riceveva, secondo quanto sostenuto dalla società, una lettera di licenziamento per giusta causa datata 7 agosto 2019. Tuttavia, fin dalle prime fasi del contenzioso, il dipendente ha contestato di aver mai ricevuto tale comunicazione scritta, sostenendo che il recesso gli era stato comunicato esclusivamente in forma orale.

Il lavoratore impugnava quindi il licenziamento dinanzi al Tribunale di Arezzo, il quale tuttavia respingeva il ricorso, ritenendo insussistente il licenziamento orale denunciato e ritenendo che la lettera di licenziamento fosse stata regolarmente spedita per raccomandata il 16 agosto 2019 e ricevuta il 19 agosto 2019. Il Tribunale riteneva inoltre che i fatti addebitati fossero stati ammessi dallo stesso dipendente e fossero tali da minare il rapporto fiduciario, trattandosi di registrazione di dati non veritieri.

Avverso tale sentenza, il lavoratore proponeva appello dinanzi alla Corte d’Appello di Firenze, la quale, con sentenza n. 638/2022, dichiarava l’illegittimità del licenziamento e condannava la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 10 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.

Tuttavia, anche la Corte d’Appello escludeva che il licenziamento fosse avvenuto oralmente, basando tale conclusione su due elementi fondamentali: da un lato, il fatto che il lavoratore avesse depositato la lettera di licenziamento in primo grado senza precisare come ne fosse venuto altrimenti in possesso; dall’altro, il fatto che nella lettera di impugnativa del licenziamento non si facesse alcun riferimento alla sua presunta oralità.

Sul punto, la Corte d’Appello osservava che nella lettera di licenziamento era stata apposta la dicitura “raccomandata a mano“, ma che nella stessa mancava ogni verbalizzazione in merito a tale avvenuta consegna, nonché la firma dei testimoni in presenza dei quali la stessa si assumeva consegnata. Tuttavia, riteneva comunque provato che il licenziamento fosse stato intimato per iscritto.

Nel merito, la Corte d’Appello riteneva fondato il motivo di appello relativo alla confusione operata dal Tribunale sui fatti oggetto di contestazione, rilevando che gli addebiti erano quelli indicati nella lettera di contestazione disciplinare del 29 luglio 2019, rispetto ai quali il lavoratore, in sede di audizione orale, aveva ammesso di aver commesso errori nell’inserimento dei dati e aveva chiesto scusa. Secondo la Corte, tali fatti, concernenti irregolarità limitate a pochi episodi, erano di modesta gravità, tanto più che la stessa società aveva ammesso di non aver fornito al dipendente un’adeguata formazione. Inoltre, nel codice disciplinare aziendale, mancanze similari erano punite con la sanzione della sospensione dal servizio e non con il licenziamento.

La Corte d’Appello escludeva inoltre la natura ritorsiva o discriminatoria del licenziamento, nonostante il lavoratore avesse dedotto che l’atteggiamento del datore di lavoro era mutato nei suoi confronti quando aveva iniziato a chiedere il riconoscimento di permessi ex lege e a svolgere attività sindacale.

Avverso tale sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, fondato su quattro motivi. In particolare, con i primi due motivi, il ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., degli articoli 2733 e 2729 c.c., dell’articolo 2 della Legge n. 604/1966 e dell’articolo 2 del D.Lgs. n. 23/2015, per aver la Corte d’Appello erroneamente sostenuto che il licenziamento non fosse stato intimato in forma orale.

Il ricorrente rilevava in particolare che la Corte aveva travisato il fatto, in quanto era pacifico che egli non avesse depositato la lettera di licenziamento in primo grado, ma l’avesse prodotta solo nel giudizio d’appello, dopo averla prelevata dal fascicolo del datore di lavoro, non avendola ricevuta al momento del licenziamento. Inoltre, contestava che la mancata menzione dell’oralità del licenziamento nella lettera di impugnazione potesse essere considerata un elemento presuntivo a favore della sua forma scritta.

La Suprema Corte, con ordinanza n. 35757/2023 pubblicata il 21 dicembre 2023, accoglieva i primi due motivi di ricorso, ritenendoli fondati. In particolare, la Cassazione rilevava che la Corte d’Appello aveva errato nel ritenere che il lavoratore avesse prodotto la lettera di licenziamento già in primo grado, quando invece tale circostanza era pacificamente esclusa dalle parti. Questa erronea valutazione della prova costituiva una violazione dell’articolo 115 c.p.c..

Inoltre, la Suprema Corte riteneva errata in diritto l’affermazione secondo cui, poiché il lavoratore non aveva addotto da subito nella impugnazione del licenziamento il vizio dell’oralità, ciò dimostrerebbe che la lettera gli fosse stata consegnata per iscritto. Al contrario, il lavoratore non è tenuto a contestare da subito i singoli vizi del licenziamento e non è vincolato ai motivi eventualmente dedotti nell’impugnazione stragiudiziale, posto che l’atto di impugnazione ha un contenuto libero, con l’unico onere dell’idoneità a rendere nota la volontà di impugnare il licenziamento.

La Cassazione ribadiva inoltre che la prova della comunicazione al lavoratore del licenziamento intimato per iscritto deve essere fornita nel giudizio dal datore di lavoro, in conformità all’articolo 2 della Legge n. 604/1966, fermo restando i limiti di ammissibilità della testimonianza per la prova di un atto per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam.

La causa veniva quindi rinviata alla Corte d’Appello di Firenze, la quale era chiamata a procedere “agli accertamenti in ordine alla comunicazione ed alla forma del licenziamento di cui si tratta in conformità alle prove dedotte dalle parti ed al principio dispositivo“.

NORMATIVA E PRECEDENTI

Il quadro normativo di riferimento per la valutazione della forma del licenziamento e delle conseguenze della sua eventuale comunicazione orale si rinviene principalmente nella Legge 15 luglio 1966, n. 604, nelle disposizioni dello Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300) e nel più recente Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (c.d. Jobs Act).

In particolare, l’articolo 2 della Legge n. 604/1966 stabilisce che: “Il datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro”. Tale disposizione sancisce dunque un requisito formale inderogabile per la validità del licenziamento, prescrivendo la forma scritta ad substantiam.

Il mancato rispetto di tale requisito formale determina la nullità del licenziamento, con conseguenze significative in termini di tutela per il lavoratore. In particolare, l’articolo 18, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori, nella sua formulazione successiva alla Legge n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), prevede la c.d. tutela reintegratoria piena per i licenziamenti nulli, categoria nella quale rientrano anche i licenziamenti orali.

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