La recente ordinanza della Suprema Corte di Cassazione affronta un tema cruciale nella liquidazione del danno non patrimoniale, ribadendo l’autonomia concettuale e risarcitoria del danno morale rispetto al danno biologico. La decisione si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale che, a partire dal 2018, ha riaffermato con crescente chiarezza la necessità di liquidare separatamente queste due componenti del pregiudizio non patrimoniale. Il principio, oggi cristallizzato anche a livello normativo nell’art. 138 del Codice delle Assicurazioni Private, impone ai giudici di merito una valutazione più articolata e attenta delle sofferenze interiori patite dalla vittima di lesioni, evitando l’appiattimento risarcitorio che deriverebbe dalla sola applicazione “standard” delle tabelle milanesi. La sentenza rappresenta un importante precedente per tutti i professionisti che si occupano di responsabilità civile e risarcimento del danno alla persona, offrendo indicazioni operative precise per la corretta impostazione delle richieste risarcitorie nei giudizi di merito.
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Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
- TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA ⬇️
ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda processuale trae origine da un sinistro stradale avvenuto alcuni anni fa, nel quale il ricorrente, alla guida di un motociclo, veniva investito da tergo da un’autovettura rimasta ignota, il cui conducente si allontanava senza prestare i dovuti soccorsi. A seguito di tale incidente, il danneggiato proponeva domanda risarcitoria nei confronti della compagnia assicurativa, in qualità di impresa designata per i sinistri a carico del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada. Il Tribunale di Napoli, con sentenza emessa in primo grado, accoglieva parzialmente la domanda, condannando la compagnia al pagamento di una somma complessiva a titolo di risarcimento, oltre interessi e spese mediche, disponendo altresì la rifusione delle spese di lite.
Nel determinare il quantum risarcitorio, il giudice di prime cure riteneva sussistente una colpa concorrente dell’attore nella misura del 60%, imputabile al mancato utilizzo del casco protettivo. Tale percentuale veniva applicata alla liquidazione del danno non patrimoniale, determinato in relazione a un’invalidità permanente significativa e a un periodo di inabilità temporanea articolato in diverse fasi con differenti percentuali di invalidità. Il Tribunale utilizzava come parametro di riferimento le tabelle di Milano, precisando che il danno non patrimoniale liquidato comprendeva sia la voce del danno biologico che quella del danno morale, secondo la misura standard individuata dalle tabelle in una voce unica.
Avverso tale sentenza, il danneggiato proponeva appello, contestando principalmente tre aspetti: la sussistenza del concorso di colpa o, in subordine, la misura percentuale dello stesso, ritenuta eccessiva rispetto alla dinamica del sinistro; il mancato riconoscimento del danno patrimoniale futuro da perdita o riduzione della capacità lavorativa; l’omessa valutazione autonoma del danno morale rispetto al danno biologico. La Corte d’Appello di Napoli rigettava integralmente il gravame, confermando la decisione del giudice di primo grado in tutti i suoi aspetti.
Il motociclista proponeva quindi ricorso per Cassazione, articolando quattro motivi di impugnazione. Con il primo motivo, lamentava la violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost. per difetto di motivazione in merito alla quantificazione della percentuale di concorso di colpa. Con il secondo e il terzo motivo, censurava la mancata liquidazione del danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa. Con il quarto motivo, infine, denunciava la violazione dell’art. 2059 c.c. per non aver la Corte territoriale riconosciuto l’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, liquidando entrambi in un’unica voce sulla base delle tabelle milanesi. La compagnia assicurativa resisteva con controricorso.
NORMATIVA E PRECEDENTI
Il caso in esame coinvolge molteplici profili normativi e giurisprudenziali relativi alla responsabilità civile e al risarcimento del danno. Il nucleo centrale della controversia riguarda l’interpretazione dell’art. 2059 c.c. che, nel disciplinare il risarcimento del danno non patrimoniale, ha costituito il terreno su cui si è sviluppata un’elaborata costruzione giurisprudenziale circa le diverse componenti di tale pregiudizio e le modalità della loro liquidazione.
L’evoluzione giurisprudenziale in materia ha conosciuto diverse fasi. A partire dalle storiche “sentenze gemelle” della Cassazione del 2003 (nn. 8827 e 8828), confermate dalle celebri pronunce delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 (nn. 26972-26975), si era affermato il principio della unitarietà del danno non patrimoniale e della necessità di evitare duplicazioni risarcitorie. Tale impostazione aveva portato, nella prassi applicativa, all’adozione di un sistema di liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, in cui il danno morale veniva considerato una componente interna del danno biologico, senza autonomo rilievo liquidatorio.
Tuttavia, a partire dal 2018, si è assistito a un significativo revirement della giurisprudenza di legittimità, che ha progressivamente riaffermato l’autonomia ontologica e risarcitoria del danno morale rispetto al danno biologico. Questa nuova corrente interpretativa ha trovato una chiara espressione nelle recenti pronunce della Terza Sezione Civile della Cassazione, tra cui spiccano le ordinanze n. 7513 del 2018, n. 4878 del 2019, n. 25164 del 2020 e n. 9006 del 2022.
Tale orientamento ha trovato anche un riconoscimento normativo nell’art. 138 del Codice delle Assicurazioni Private (D.lgs. n. 209/2005), come modificato dalla legge n. 124 del 2017. In particolare, il comma 2, lettera e) di tale articolo ha previsto espressamente che, al fine di considerare la componente morale da lesione dell’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico sia incrementata in via progressiva e per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione.
Parallelamente, la giurisprudenza ha elaborato principi specifici in materia di concorso di colpa del danneggiato, disciplinato dall’art. 1227 c.c., chiarendo che la quantificazione in misura percentuale del contributo colposo della vittima alla causazione del danno è rimessa all’accertamento del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, purché adeguatamente motivata (Cass. n. 11258 del 10 maggio 2018, Cass. n. 272 del 10 gennaio 2017).
Per quanto concerne il danno patrimoniale futuro da perdita della capacità lavorativa, la giurisprudenza ha elaborato una serie di principi, distinguendo la posizione di chi, al momento del sinistro, svolgeva un’attività lavorativa remunerata da quella di chi non era occupato. In questo secondo caso, la Cassazione ha precisato che il risarcimento è dovuto solo qualora possa ritenersi che la vittima, se non fosse stata infortunata, avrebbe cercato e trovato un lavoro confacente al proprio profilo professionale, escludendo invece la risarcibilità in caso di “disoccupazione volontaria, ovvero di un consapevole rifiuto dell’attività lavorativa” (Cass. n. 1163 del 2020 e Cass. n. 9692 del 2020).
Un ulteriore riferimento normativo rilevante è costituito dall’art. 3, comma 3 del D.L. n. 158 del 2012 (c.d. Decreto Balduzzi), convertito con modificazioni dalla legge n. 189 del 2012, che ha previsto che il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria sia risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
La Corte di Cassazione ha esaminato analiticamente i quattro motivi di ricorso, giungendo a conclusioni differenziate che meritano un’attenta analisi. Con riferimento al primo motivo, relativo alla pretesa violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 111 Cost. per difetto di motivazione in merito alla quantificazione della percentuale di concorso di colpa del danneggiato, la Suprema Corte lo ha dichiarato infondato, rilevando che la sentenza impugnata aveva fornito una motivazione minima ma sufficiente in ordine alle ragioni dell’adesione alla percentuale stabilita dal giudice di primo grado.