La corresponsione dell’assegno di divorzio dopo il nuovo matrimonio del beneficiario costituisce pagamento di un indebito soggetto a ripetizione

Tribunale Messina, sentenza 19/02/2021

MASSIMA

Le somme pagate a titolo di assegno di divorzio dopo il nuovo matrimonio della beneficiaria non costituiscono adempimento di un’obbligazione naturale, ma indebito, soggetto a restituzione”

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. Campagna G. esponeva di avere contratto matrimonio con D.B.L. nel 1986, che da detto matrimonio, durato circa tre anni, non erano nati figli e che – dopo la pronunzia di separazione del 1990 – con sentenza del 10/17.3.2005 era stata pronunziata la cessazione degli effetti civili del matrimonio e riconosciuto in favore della D.B. un assegno divorzile di Euro 750,00 mensili, poi aumentato ad Euro 800,00 in virtù dell’adeguamento ISTAT. Rilevava di avere corrisposto detta somma sino al 2017, anche attese le pressanti richieste della D.B., fino a quando, nel mese di novembre del 2017, aveva appreso, con stupore e sconcerto, che la stessa aveva contratto matrimonio in data 1.3.2010 con O.W.F., circostanza che la D.B. aveva taciuto al fine di continuare a percepire l’assegno divorzile. Aggiungeva che il coniuge della D.B. era deceduto il 23.7.2011 e che la stessa, dal mese successivo al decesso, percepiva la relativa pensione di reversibilità, continuando comunque a percepire l’assegno divorzile. Precisava di avere versato indebitamente, per quanto esposto, la somma di Euro 64.000,00 (ovvero quella corrispondente alle mensilità versate dall’1.3.2010 al novembre 2017) e pertanto chiedeva la restituzione di detta somma maggiorata di interessi legali dalla data del pagamento di ogni singola mensilità. Rilevava che il dovere di versare l’assegno divorzile era venuto meno ex lege nel marzo 2010 e che totalmente infondata doveva ritenersi la tesi di controparte, espressa in fase stragiudiziale, secondo la quale dette somme erano irripetibili in quanto versate in adempimento di una obbligazione naturale atteso che, al contrario, l’obbligo era solo ex lege e come tale era venuto meno con la celebrazione delle nuove nozze. Infine rilevava che la competenza doveva ritenersi del Tribunale di Messina ex art. 20 c.p.c., in quanto luogo nel quale veniva eseguita la obbligazione.

Instaurato il contraddittorio, con comparsa depositata in data 13.4.2018, la convenuta preliminarmente eccepiva la incompetenza del Tribunale di Messina in favore del Tribunale di Monza, luogo in cui era sorta l’obbligazione, controvertendosi nel caso di specie non solo dell’indebito ma anche dell’accertamento della cessazione dell’obbligo di versare l’assegno divorzile. Nel merito rilevava la infondatezza delle pretese avversarie considerato che il Campagna era perfettamente a conoscenza della intervenuta celebrazione delle sue nozze con il F., poiché era a lui ben nota la relazione già esistente all’epoca del divorzio e dalla quale era anche nata una bambina. Aggiungeva che, nonostante avesse appreso del matrimonio, il Campagna aveva continuato a versare la somma di Euro 800,00 a titolo di obbligazione naturale e, stante tale natura della obbligazione, la stessa doveva ritenersi non ripetibile. Ripercorreva le vicende relative al rapporto con il Campagna e rilevava che lo stesso aveva versato, sin dalla sentenza di divorzio, la somma di Euro 800,00 in luogo di quella prevista di Euro 750,00 così dimostrando di volere spontaneamente adempiere ad una obbligazione naturale. Aggiungeva che, nonostante quanto affermato già da tempo dalla Suprema Corte, il Campagna aveva continuato a versare detta somma nonostante sapesse della sua relazione more uxorio con il F. e, pertanto, non credibile appariva la circostanza che lo stesso non fosse a conoscenza del matrimonio. Ancora rilevava che il Campagna non aveva nemmeno richiesto la riduzione dell’importo dell’assegno nonostante la creazione con la nuova compagna di una nuova famiglia dalla quale erano nati due figli. Affermava che non era credibile la circostanza che lo stesso avesse per caso richiesto un certificato di matrimonio solo così apprendendo della celebrazione del matrimonio. Rilevava che ella era solita recarsi in vacanza a Roccalumera – paese limitrofo a quello in cui abita il ricorrente – e che, dunque, il Campagna era perfettamente a conoscenza della relazione e avrebbe avuto “motivi e modi” per sottrarsi a detto obbligo che, al contrario, aveva continuato volontariamente ad adempiere: ribadiva, dunque, che da tutti questi elementi emergeva la volontarietà della dazione, la esistenza della proporzionalità della prestazione rispetto ai mezzi dell’adempiente ed all’interesse da soddisfare, tutti elementi che qualificavano detto adempimento come obbligazione naturale. Precisava, infine, che ella non aveva da anni alcun rapporto con il marito e che le comunicazioni erano solo con le segretarie dello studio medico dello stesso che lei chiamava per richiedere i codici per ritirare i vaglia postali mediante i quali veniva versato l’assegno. Escludeva di avere sottratto garanzie patrimoniali. Chiedeva, ancora, la conversione del giudizio da sommario di cognizione a rito ordinario.

Disposta la conversione del rito da sommario di cognizione a rito ordinario, concessi i termini di rito, venivano ammesse ed espletate le prove e, successivamente, la causa veniva assunta in decisione.

Preliminarmente deve essere dichiarata inammissibile la eccezione di incompetenza sollevata da parte convenuta.

Invero la D.B. ha affermato che, involgendo la domanda svolta dal ricorrente anche la questione relativa alla esistenza della obbligazione, fosse competente il Tribunale di Monza in quanto luogo in cui era sorta, con la pronunzia di divorzio, l’obbligazione a carico del Campagna.

Tuttavia deve rilevarsi che detta eccezione non è stata correttamente sollevata.

Ha chiarito sul punto la Suprema Corte che in tema di competenza territoriale nelle cause relative a diritti di obbligazione, la disciplina di cui all’art. 38, comma 1, c.p.c., come sostituito dall’art. 45 della L. n. 69 del 2009 – la quale, con riguardo a detta specie di competenza, ha riproposto i contenuti del terzo comma del testo previgente dell’art. 38, sia in punto di necessaria formulazione dell’eccezione “a pena di decadenza” nella comparsa di risposta, sia quanto alla completezza dell’eccezione – comporta che il convenuto sia tenuto ad eccepire l’incompetenza per territorio del giudice adito con riferimento a tutti i concorrenti criteri previsti dagli artt. 18, 19 e 20 c.p.c. (e, nel caso di cumulo soggettivo, ai sensi dell’art. 33 c.p.c., in relazione a tutti i convenuti), indicando specificamente, in relazione ai criteri medesimi, quale sia il giudice che ritenga competente, (ex multis Cass. 17374/2020).

Parte resistente, al contrario, si è limitata ad affermare la competenza in relazione all’unico criterio del luogo in cui è sorta la obbligazione senza nulla riferire in ordine agli altri criteri, se non tardivamente nel verbale del 2.7.2018.

Pertanto, l’eccezione deve essere dichiarata inammissibile.

Nel merito la domanda è fondata e deve essere accolta.

Ha affermato parte ricorrente di avere versato la somma prevista nella sentenza di divorzio a titolo di assegno divorzile in favore della D.B. sino al novembre 2017 nonostante la stessa avesse contratto nuovo matrimonio in data 1.3.2010 e che, pertanto, da detta data, si configurava un indebito oggettivo ex art. 2033.c.c..

Al contrario ha affermato la D.B. che, poiché il Campagna era a conoscenza del matrimonio, lo stesso aveva spontaneamente deciso di continuare a versare detta somma e che, pertanto, dalla natura spontanea di detta dazione doveva discendere la qualificazione della stessa quale adempimento di una obbligazione naturale con conseguente irripetibilità della somma versata. Ciò premesso, a prescindere dalla circostanza che non può ritenersi provata la conoscenza da parte del Campagna della celebrazione del nuovo matrimonio della D.B. (non risultando detto argomento assolutamente dimostrato dalle dichiarazioni dei testimoni escussi), deve ritenersi che nel caso di specie non possa parlarsi di obbligazione naturale.

L’obbligazione naturale è regolata nel nostro codice civile dall’art. 2034 c.c., a tenore del quale non è ammessa la ripetizione di quanto spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace.

Avendo riguardo alla formulazione della norma suindicata, deve preliminarmente rilevarsi che nel sistema delineato nel codice del 1942, non vi è coincidenza fra l’obbligazione naturale e la liberalità, stante la incompatibilità, dal punto di vista soggettivo, fra l’animus donandi (requisito indispensabile della attribuzione liberale) ed il vincolo giuridico che pur sempre sta alla base della obbligazione naturale e che giustifica la efficacia traslativa.

Invero, secondo la opinione maggiormente diffusa in dottrina, l’adempimento della obbligazione naturale è, comunque, un atto negoziale con il quale il soggetto agente dispone liberamente della propria sfera giuridica per realizzare un interesse che l’ordinamento ritiene meritevole, interesse che rappresenta la causa giustificatrice della solutio e, di conseguenza, dell’acquisto di diritti.

Secondo la dottrina, dunque, la prestazione indicata al primo comma dell’art. 2034 c.c. opera come fonte di regolamento di interessi meritevoli di tutela alla stregua dell’art. 1322.c.c. e, sotto questo profilo, idonei ad integrare la causa del negozio ex art. 1325 n. 2 c.c..

Pertanto, la prestazione alla quale l’art. 2034 c.c. collega l’effetto della soluti retentio altro non è che un contratto (o secondo altri, in alcuni casi, un negozio giuridico unilaterale) avente una causa esterna da individuarsi sulla base della morale sociale, avente effetti traslativi o obbligatori e, tendenzialmente, quanto all’iter perfezionativo, di natura consensuale, libero da specifici oneri di forma quanto alle modalità di esternazione del volere (a meno che non comporti il trasferimento di diritti reali) e gratuito in ordine alla ripartizione degli effetti.

Il “fondamento sostanziale” del negozio (individuato dalla dottrina come “causa esterna”) si identifica con i doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c..

Il legislatore del 1942 non ha precisato quali siano i doveri morali e sociali rilevanti, inserendo nella norma una clausola generale indefinita, così da consentire all’ordinamento di recepire i valori e le istanze etiche emergenti dalla società e garantire una sintonia costante con la evoluzione del costume e della cultura.

Si è affermato, in proposito, che l’evoluzione avvenuta nella giurisprudenza di legittimità a partire dalla fine dall’inizio degli anni ’60 con il “transito” delle attribuzioni effettuate nell’ambito di una convivenza more uxorio dalla sfera della donazione remuneratoria (nella cui categoria dapprima le stesse venivano inserite) a quella dell’adempimento di un dovere morale e sociale ex art. 2034 c.c. è stata determinata, ad esempio, proprio dalla esigenza di adeguare la realtà del diritto alla mutata coscienza sociale, oltre che ai valori della Corte Costituzionale. È opinione diffusa, inoltre, che la norma non contenga una alternativa fra i diversi tipi di doveri in essa richiamati (morali o sociali), dovendo gli stessi essere al tempo stesso sia morali che sociali, ed essendo rappresentati, pertanto, dalla c,d. “morale sociale”: si afferma, dunque, che soltanto i valori condivisi dalla generalità dei consociati possono consentire di qualificare un adempimento come effettuato ai sensi dell’art. 2034 c.c. e, conseguentemente, giustificare la soluti retentio.

Non costituiscono, al contrario, obbligazioni naturali quei doveri che, non attingendo la soglia minima di riconoscimento collettivo, restano patrimonio di gruppi più o meno estesi ma comunque portatori di un punto di vista etico parziale.

Si afferma, invero, che il dovere morale integra gli estremi dell’interesse meritevole di tutela ex art. 1322 c.c. qualora sia anche sociale, mentre, in caso contrario, lo stesso retrocederà al rango di semplice motivo, potendo, dunque, trovare soddisfazione solo mediante un diverso negozio a causa tipica rispetto a quello previsto dall’art. 2034 c.c..

Proprio in virtù di dette considerazioni sono normalmente esclusi dal novero dei doveri sociali rilevanti ex art. 2034 c.c. i c.d. doveri della morale individuale, o, ancora, quelli di carattere religioso, anche se relativi alla carità o alla beneficenza.

Analogamente si è affermato che non costituiscono obbligazioni naturali i doveri di cortesia o di galateo, atteso che questi ultimi, seppur diffusi nel sentire sociale, hanno una scarsa rilevanza sul piano etico.

Una opinione diffusa in dottrina, in proposito, afferma che i doveri previsti dall’art. 2034 c.c. si pongono in una fascia intermedia fra quelli puramente bagatellari secondo l’ordinamento (che rimangono nel campo della cortesia o del galateo) e di quelli di rango superiore che si riannodano a valori quali la pietà o la carità.

Al fine di individuare, dunque, ipotesi idonee ad integrare gli estremi delle obbligazioni naturali deve farsi riferimento ad un criterio di giudizio, interno all’ordinamento, che non guarda solo alla liceità del dovere, bensì alla appartenenza del valore o del principio – cui la prestazione si collega – al novero dei valori o dei principi già accolti dall’ordinamento anche se inadeguati a sostenere un pieno riconoscimento della fattispecie quale fonte di una obbligazione, a causa di una “controregola” espressione di esigenze di rango quasi equivalente: una esemplificazione di detta ricostruzione, accolta dalla giurisprudenza di legittimità negli anni ’60, si rinviene nella già citata ipotesi delle elargizioni effettuate nei confronti del convivente, laddove al principio di solidarietà familiare (che sta alla base della elargizione in favore del convivente) si contrappone la controregola – nella visione della Suprema Corte che aveva affermato detta natura – rappresentata dal favor per la famiglia fondata sul matrimonio.

Ancora deve rilevarsi che l’esclusione dal novero delle obbligazioni naturali delle ipotesi sopra richiamate (doversi di cortesia, galateo, pietà o carità) non è determinato dalla natura patrimoniale o meno della obbligazione, quanto dal contenuto stesso della obbligazione di tali doveri, i quali non hanno ad oggetto comportamenti che, alla stregua della coscienza sociale, possano considerarsi moralmente o socialmente necessari.

Invero, affinché si possa ritenere sussistente una obbligazione naturale non basta che un atto sia positivamente valutabile sul piano della morale sociale ma occorre che la sua inosservanza comporti anche un giudizio di riprovazione o disistima.

Altri requisiti della obbligazione naturale – da cui discende la irripetibilità di quanto trasferito – oltre la esistenza di un dovere morale e sociale così come sopra individuato, sono quelli della capacità del tradens e della spontaneità.

Quanto al requisito della capacità, lo stesso viene pacificamente inteso come capacità legale di agire ex art. 2 c.c. con la conseguenza che, in sua assenza, potranno trovare applicazione sia la previsione dell’art. 1424 c.c., che quella dell’art. 428 c.c..

L’adempimento, inoltre, deve essere spontaneo nel senso che, per essere valido ai sensi dell’art. 2034 c.c., non deve essere determinato da un errore sulla esistenza della obbligazione naturale stessa, così come invalido deve ritenersi nel caso in cui lo stesso sia viziato da errore o dolo. Tutto ciò premesso, ritiene il Tribunale che nel caso di specie la dazione effettuata dal Campagna in favore della D.B. non possa configurarsi come obbligazione naturale, non essendo giustificata da alcun valore morale o sociale che la giustifichi.

Invero, non si rinviene – anche alla luce della evoluzione giurisprudenziale in materia di obblighi di solidarietà familiare – una giustificazione causale, come sopra affermato, alla dazione fatta da un ex coniuge all’altro quando lo stesso è ormai passato a nuove nozze.

Il nostro ordinamento, come è noto, prevede espressamente che le ragioni di solidarietà familiare giustifichino il riconoscimento dell’assegno di mantenimento al coniuge separato (al quale, in ragione di dette ragioni, deve essere riconosciuto un assegno che consenta di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto nel corso del matrimonio, ancora non venuto meno), così come le ragioni di solidarietà post familiare giustificano, ove ne ricorrano i presupposti, il riconoscimento dell’assegno in favore del coniuge divorziato.

Secondo l’indirizzo più recente, inaugurato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18287/2018, l’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge ha natura assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà, che conduce al riconoscimento di un contributo volto non a conseguire l’autosufficienza economica del richiedente sulla base di un parametro astratto, bensì un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella vita familiare in concreto, tenendo conto in particolare delle aspettative professionali sacrificate, fermo restando che la funzione equilibratrice non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi.

Questo principio di solidarietà post coniugale è posto alla base anche delle previsioni che riconoscono in favore del coniuge divorziato, nel ricorrere dei presupposti, sia l’assegno a carico della eredità, che la quota di TFR e della pensione di reversibilità che, infine, il diritto nei confronti dell’ente mutualistico da cui sia assistito l’altro coniuge.

Il principio di solidarietà post-familiare sta alla base anche del riconoscimento, ormai legislativo e non più giurisprudenziale, previsto dalla L. n. 76 del 2016 dell’assegno alimentare in favore dall’ex convivente.

Tuttavia, affianco alla solidarietà matrimoniale e post matrimoniale, sono ormai principi riconosciuti dall’ordinamento, atteso il mutamento della coscienza sociale, come ricordato proprio dalle Sezioni Unite del 2018 in materia di assegno divorzile, il principio di autoresponsabilità e di autodeterminazione, principi che, secondo la evoluzione della Suprema Corte, giustificano che nel caso di creazione di una famiglia di fatto venga meno il diritto del coniuge a ricevere l’assegno divorzile.

Invero, si è ormai affermato un diverso modo di guardare alle seconde unioni, anche solo di fatto, riconoscendo un diritto del singolo a costituire una nuova famiglia, diritto che è riconosciuto anche da fonti sovranazionali, in particolare dall’art. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dall’art. 9 della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, norme enuncianti principi che sono stati espressamente richiamati anche in decisioni della Suprema Corte (in questo senso Cass.6289/2014).

Anche nelle legislazioni degli altri paesi emerge una visione della solidarietà post coniugale ormai mutata.

Ad esempio nei paesi di common law, in base proprio alla affermazione del principio di autoresponsabilità, comincia a prevedersi una tutela assistenziale-riabilitativa e tendenzialmente limitata nel tempo per il coniuge reduce da un matrimonio di breve durata, ancora in giovane età e non gravato dall’impegno richiesto per l’accudimento dei figli, oltre che scelte legislative che impongono una definizione una tantum delle conseguenze economiche del divorzio (ad esempio l’adesione alla c.d. clean break theory consente di risolvere il problema dei riflessi patrimoniali del divorzio mediante l’attribuzione di una somma una tantum (lump sum) o l’assegnazione al coniuge economicamente debole di uno o più beni appartenenti all’altro, limitando ad ipotesi residuali il pagamento di somme periodiche a titolo di mantenimento.

Ma anche in ordinamenti di civil law, più affini al nostro, sono stati introdotti in tempi relativamente recenti strumenti idonei a conciliare l’esigenza di mantenimento del coniuge economicamente debole con quella di evitare il protrarsi di posizioni di interdipendenza economica successivamente al divorzio. Così, ad esempio, nell’ordinamento francese, la corresponsione della prestation compensatoire deve essere effettuata, ove possibile, mediante l’attribuzione una tantum di una somma di denaro o di un bene immobile (art. 270 code civil) e, solo in caso di mancanza di risorse sufficienti in capo al coniuge economicamente forte, può essere assolta mediante pagamenti periodici (art. 275 code civil).

Il codice spagnolo, da ultimo, annovera quale causa estintiva del diritto a percepire l’assegno divorzile, oltre al passaggio a nuove nozze, anche la formazione di una famiglia non fondata sul matrimonio.

Alla luce di tale excursus può affermarsi che nella c.d. “morale sociale” di cui all’art. 2034 c.c. non possa ritenersi sussistente un dovere morale e sociale di corrispondere delle somme all’ex coniuge che sia passato a nuove nozze.

Invero – ferma restando l’automaticità della cessazione dell’obbligo (richiamato proprio da ultimo dalla ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite del 17.12.2020 n. 28995) – il comune sentire sembra, piuttosto, essere orientato ai nuovi principi di autodeterminazione ed autoresponsabilità proprio in base ai quali – una volta venuta meno la esigenza di una solidarietà post coniugale (come avviene, appunto, quando cessa l’obbligo di versare l’assegno divorzile perché il beneficiario ha contratto nuove nozze) non sembra rimanere alcuno spazio per riconoscere un dovere morale e sociale dell’ex coniuge di continuare a versare delle somme all’ex coniuge ormai risposato con altra persona.

Deve, ancora, evidenziarsi che – tenuto conto della ricostruzione della obbligazione naturale come sopra effettuata – non solo non si ravvisa alcuna causa estrinseca, e dunque, alcun dovere morale e sociale che imponga detta dazione ma, ancora – a riprova della insussistenza dello stesso – può ragionevolmente affermarsi che, proprio alla luce di tutti i principi ora espressi e relativi al nuovo modo di considerare le relazioni familiari – nessun giudizio di disistima possa essere mosso nei confronti di un ex coniuge che non voglia versare delle somme al precedente coniuge che ha contratto un nuovo matrimonio con altra persona.

Per quanto sopra esposto, inoltre, non sarebbe possibile qualificare l’adempimento del Campagna come obbligazione naturale nemmeno facendo riferimento ad una “morale individuale”, stante la irrilevanza della stessa.

Una volta ritenuto insussistente un dovere morale e sociale che giustifichi l’adempimento, diventa irrilevante, in questa sede, il profilo relativo alla conoscenza o meno da parte del Campagna della celebrazione delle nuove nozze contratte dall’ex coniuge.

Infatti, non potendosi ritenere sussistente la causa estrinseca rappresentata da un dovere morale e sociale che giustifichi la dazione, può affermarsi che, anche laddove lo stesso fosse stato a conoscenza della celebrazione, da parte della D.B., del nuovo matrimonio, il versamento delle somme non si sarebbe comunque potuto considerare come effettuato in adempimento di una obbligazione naturale.

Se non può, dunque, parlarsi di obbligazione naturale, deve escludersi la conseguenza primaria della stessa, ovvero la irripetibilità di quanto versato.

Pertanto, venuto meno ex lege il diritto della D.B. a ricevere l’assegno divorzile, e, per tutto quanto esposto non potendosi affermare che il Campagna abbia adempiuto ad una obbligazione naturale, la dazione effettuata dallo stesso appare priva di causa e, pertanto, ai sensi dell’art. 2033 c.c., lo stesso ha diritto alla ripetizione di quanto versato.

Detta somma può essere determinata in quella versata a titolo di assegno divorzile dall’1.3.2020 al novembre 2017 che, in base alla documentazione prodotta ed alla non contestazione di controparte, ammonta ad Euro 64.000,00.

Detta somma dovrà essere maggiorata di interessi.

Ha chiesto parte ricorrente che detti interessi vengano conteggiati a partire dalla data del pagamento di ogni singola mensilità.

L’art. 2033 c.c. prevede che gli interessi decorrano dal giorno del pagamento nel caso in cui l’accipiens fosse in mala fede ed, invece, dal giorno della domanda se questi era in buona fede. Secondo la Suprema Corte, in materia di ripetizione dell’indebito oggettivo, si presume la buona fede dell’accipiens, spettando a chi ha provveduto al versamento dimostrarne la mala fede.

Come chiarito dalla Corte di Cassazione in tema di indebito oggettivo, lo stato soggettivo di mala fede ex art. 2033 cod. civ. concerne esclusivamente lo stato soggettivo di chi riceve l’indebito, sostanziandosi nella conoscenza dell’insussistenza di un suo diritto al pagamento (ex multis Cass. 5575/2003).

Ha affermato il ricorrente che la D.B. non potesse non essere a conoscenza del venir meno del suo diritto a percepire l’assegno divorzile stante il contenuto della sentenza di divorzio.

La prospettazione di parte ricorrente deve essere condivisa.

Invero, parte ricorrente ha prodotto la copia integrale della sentenza di divorzio nella quale, alla seconda pagina, sono riportate le conclusioni congiuntamente formulate delle parti, fra le quali, al punto 2, era testualmente previsto che “l’obbligo di corresponsione del superiore assegno cesserà nel momento in cui L.D.B. passerà a nuove nozze o verrà meno il di lei stato attuale”.

Pertanto, deve affermarsi che la D.B. – indipendentemente dalla conoscenza del dato normativo rappresentato dall’art. 5 comma 10 L. n. 898 del 1970 – fosse a conoscenza, stante le condizioni espressamente richiamate in sentenza, che il suo diritto a ricevere l’assegno sarebbe cessato nel caso di nuove nozze.

Alla luce di detta circostanza, che deve ritenersi che la D.B. fosse certamente a conoscenza della inesistenza del suo diritto a ricevere l’assegno divorzile a far data dall’1.3.2010 e, pertanto, ritenuta – in base ai principi espressi dalla Suprema Corte e sopra richiamati – la mala fede della stessa, la somma riconosciuta al ricorrente a titoli di indebito oggettivo deve essere maggiorata di interessi dalla data del pagamento di ciascuna mensilità.

Infine, parte resistente ha chiesto, nella memoria depositata ex art. 183, 6 comma n. 1 c.p.c., la cancellazione delle espressioni sconvenienti ed offensive utilizzate dalla controparte, con condanna della stessa al risarcimento del danno.

Ha chiarito la Suprema Corte che in tema di cancellazione delle espressioni offensive o sconvenienti contenute in scritti difensivi, l’apprezzamento circa l’effettivo rapporto tra queste e l’oggetto della causa – rimesso alla valutazione del giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità – consegue all’istanza di cancellazione della parte, senza che l’istanza stessa costituisca, peraltro, domanda giudiziale, risultando essa, per converso, una semplice sollecitazione all’esercizio di un potere officioso del giudice, strumentale all’obbligo delle parti di comportarsi in giudizio con lealtà e probità.

Parte resistente, peraltro, si è limitata a richiedere genericamente la cancellazione di “alcune espressioni offensive” senza, tuttavia, indicarne alcuna in maniera specifica.

A prescindere da ciò, e tenuto conto del potere officioso, deve ritenersi che non siano ravvisabili, negli atti del ricorrente, espressioni che possano ritenersi eccedenti il diritto di difesa o che siano state utilizzate esclusivamente a fini dispregiativi della controparte.

Da ciò discende, dunque, anche il rigetto della relativa domanda di condanna del ricorrente al risarcimento del danno.

Le spese del giudizio, stante la soccombenza, devono essere poste a carico della resistente e liquidate secondo lo scaglione da Euro 52.001,00 ad Euro 260.000,00 tenendo conto, ex art. 4 comma 1 D.M. n. 55 del 2014, dei valori medi così determinando le singole voci: Euro 2.430,00 fase studio, Euro 1.550,00 fase introduttiva del giudizio, Euro 5.400,00 fase istruttoria e di trattazione, Euro 4.050,00 fase decisoria.

P.Q.M.

Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, in persona del sottoscritto giudice istruttore in funzione di giudice unico, definitivamente decidendo sulla domanda proposta da CAMPAGNA G. contro D.B.L. così provvede:

1) condanna D.B.L. alla restituzione in favore di Campagna G., per le causali di cui in motivazione, della somma di Euro 64.000,00 oltre interessi legali a decorrere dal pagamento di ogni singola mensilità dall’1.3.2010 al novembre 2017;

2) condanna D.B.L. alla rifusione delle spese processuali in favore di Campagna G. che liquida in Euro 417,03 per spese vive ed Euro 13.430,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa.

La presente sentenza è esecutiva per legge.

Conclusione

Così deciso in Messina, il 19 febbraio 2021.

Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2021.

Avv. Cosimo Montinaro

Contatta lo Studio per SEPARAZIONE O DIVORZIO

CONTATTI

.

Torna in alto