Una vicenda familiare complessa ha portato il Tribunale di Napoli a pronunciarsi su una questione di fondamentale importanza nel diritto successorio italiano: la validità di un testamento sottoscritto congiuntamente da entrambi i coniugi. La sentenza, emessa nel 2025, rappresenta un punto di riferimento essenziale per comprendere i limiti invalicabili che la legge pone alla libertà testamentaria quando questa viene esercitata in forma congiunta da marito e moglie.
Al centro della controversia si colloca un documento manoscritto datato marzo 1998, nel quale due coniugi avevano inteso regolare la destinazione del proprio patrimonio immobiliare a favore dei sei figli. I genitori, con quella che ritenevano fosse una manifestazione di affetto e di equità familiare, avevano dettagliatamente descritto quali beni immobili ciascun figlio avrebbe dovuto ricevere dopo la loro scomparsa. Il documento, firmato da entrambi i coniugi, era stato conservato dalla famiglia e considerato valido per anni.
Tuttavia, alla morte del padre, avvenuta nel marzo 2015, e già dopo la precedente scomparsa della madre nel marzo 2011, una delle figlie ha sollevato contestazioni ritenendo di essere stata penalizzata rispetto ai fratelli. Secondo la sua prospettazione, mentre gli altri germani avevano goduto in vita dei beni immobili del padre, lei non aveva mai beneficiato di alcunché, né quando i genitori erano in vita né dopo l’apertura della successione. Questa situazione l’ha spinta ad avviare un’azione giudiziaria per ottenere il riconoscimento della propria quota di legittima, ritenendo lesa la porzione di eredità che la legge le riservava in quanto figlia.
Il procedimento giudiziario, iniziato nel 2017, ha visto contrapporsi la figlia attrice contro i sette fratelli convenuti, dando vita a un lungo iter processuale caratterizzato da questioni tecniche complesse e da ripetute integrazioni delle domande iniziali. La causa ha assunto nel tempo una dimensione sempre più articolata, toccando temi cruciali come la collazione delle donazioni, l’azione di riduzione per lesione di legittima e lo scioglimento della comunione ereditaria.
Ma la questione centrale che ha finito per dominare l’intera vicenda è emersa prepotentemente nel corso del giudizio: quel documento manoscritto del 1998, qualificato da tutti come testamento, era davvero valido secondo la legge italiana? Potevano due coniugi manifestare congiuntamente la propria volontà successoria in un unico atto firmato da entrambi? La risposta del Tribunale di Napoli è stata netta e ha ribaltato completamente le aspettative di tutte le parti coinvolte.
La pronuncia si inserisce in un solco consolidato della giurisprudenza italiana che, con rigore assoluto, tutela alcuni principi fondamentali del diritto successorio. Tra questi principi spicca la necessità che ogni testamento sia espressione della volontà individuale e autonoma del testatore, libera da condizionamenti esterni e da accordi con altri soggetti. Il divieto di testamento congiuntivo e il divieto di patti successori rappresentano due pilastri insopprimibili dell’ordinamento italiano, concepiti per garantire che nessuno possa vincolare la propria libertà di disporre dei propri beni per il tempo successivo alla propria morte attraverso accordi con terzi.
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Avv. Cosimo Montinaro – email segreteria@studiomontinaro.it
Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda processuale trae origine da una complessa situazione familiare che ha visto coinvolti sei fratelli, tutti figli di una coppia di coniugi residenti nella provincia di Napoli. Il padre era nato nel febbraio 1924 ed era deceduto nel marzo 2015, mentre la madre era nata nel gennaio 1926 ed era venuta a mancare nel marzo 2011. Dalla loro unione erano nati sei figli, tra cui l’attrice, nata nel febbraio 1964, che ha deciso di intraprendere l’azione giudiziaria ritenendo di essere stata danneggiata nella successione paterna.
Il nucleo centrale della controversia ruota attorno a un documento manoscritto datato marzo 1998, nel quale i genitori avevano manifestato la propria volontà in ordine alla destinazione del patrimonio immobiliare familiare. Si trattava di un complesso di beni situati nella medesima località, composto da diverse unità immobiliari distribuite su più livelli: appartamenti al piano terra e al primo piano, locali adibiti ad attività commerciale, depositi e spazi comuni. Nel documento i coniugi indicavano con precisione quale immobile ciascun figlio avrebbe dovuto ricevere.
In particolare, il documento prevedeva che quattro dei figli, tra cui l’attrice, avrebbero dovuto ricevere congiuntamente un appartamento al piano terra, mentre agli altri fratelli venivano assegnate singolarmente altre unità immobiliari di minore entità. Un figlio avrebbe dovuto ricevere una stanza e un terrazzino, un altro il locale adibito a forno con deposito adiacente e ripostiglio, una figlia avrebbe ricevuto un appartamento al primo piano, e un altro figlio una stanza con servizi al primo piano. Il cortile interno era destinato a rimanere in comproprietà tra tutti i fratelli.
L’attrice ha lamentato sin dall’inizio del giudizio di non aver mai beneficiato di alcuno dei beni ereditari, né quando i genitori erano in vita né dopo l’apertura della successione. Secondo la sua ricostruzione, a differenza degli altri fratelli che avevano goduto in modo esclusivo e gratuito degli immobili loro assegnati già durante la vita del padre, lei non aveva mai ricevuto nemmeno le chiavi dell’immobile che le sarebbe dovuto spettare secondo le disposizioni dei genitori. Questa situazione di disparità di trattamento l’ha indotta a ritenere che la propria quota di legittima fosse stata lesa.
L’azione giudiziaria è stata quindi avviata nel 2017 con un atto di citazione nel quale l’attrice formulava una serie articolata di domande. In primo luogo, chiedeva che venisse accertata l’esistenza di donazioni indirette a favore dei fratelli, consistenti nel godimento gratuito degli immobili durante la vita del padre. Conseguentemente, richiedeva che tali beni venissero sottoposti a collazione, cioè conferiti nella massa ereditaria per essere poi ridistribuiti secondo le quote di legge. Inoltre, l’attrice domandava la riduzione delle disposizioni contenute nel documento del 1998, ritenendole lesive della propria quota di riserva, e chiedeva lo scioglimento della comunione ereditaria con successiva divisione dei beni.
I fratelli convenuti si sono costituiti in giudizio contestando radicalmente le pretese dell’attrice. Secondo la loro prospettazione, il documento del 1998 costituiva un valido testamento, espressione della volontà del padre di regolare la propria successione nel rispetto sia della quota disponibile sia delle quote di legittima spettanti a ciascun figlio. I convenuti hanno negato che fossero mai intervenute donazioni, dirette o indirette, sostenendo che l’appartamento al piano terra destinato a quattro figli, tra cui l’attrice, era sempre rimasto libero e mai occupato da alcuno. Hanno inoltre evidenziato che il padre aveva inteso dividere l’immobile di maggior valore tra quattro figli, assegnando agli altri le unità immobiliari residue di minore consistenza.
Il procedimento ha vissuto una fase particolarmente critica nell’ottobre 2018, quando il Giudice Istruttore ha dichiarato la nullità dell’atto di citazione per carenze nella formulazione delle domande. In particolare, è stato rilevato che l’attrice non aveva indicato con sufficiente precisione quali fossero gli atti di donazione lesivi della sua quota di legittima, né aveva fornito gli elementi necessari per calcolare l’entità della lesione. L’ordinanza ha quindi concesso all’attrice un termine per integrare la domanda introducendo tutti gli elementi richiesti dalla giurisprudenza consolidata in materia di azione di riduzione.
Con memoria integrativa depositata nel febbraio 2019, l’attrice ha precisato le proprie domande fornendo una stima del patrimonio ereditario e calcolando l’entità della presunta lesione. Ha indicato che il valore complessivo degli immobili ammontava a circa trecentomila euro, con conseguente quota di legittima globale pari ai due terzi di tale valore. Essendo sei i figli, la quota spettante a ciascuno avrebbe dovuto essere pari a poco più di trentatremila euro. Tuttavia, secondo i calcoli dell’attrice, due fratelli avrebbero ricevuto beni per un valore complessivamente superiore alla propria quota, con conseguente lesione dei diritti degli altri coeredi.
I convenuti hanno replicato ribadendo la piena validità del testamento e l’insussistenza di qualsiasi donazione. La causa è quindi proseguita con l’ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio finalizzata a individuare i beni compresi nella massa ereditaria, verificarne l’attuale titolarità e procedere alla divisione. Tuttavia, la consulenza tecnica espletata è risultata carente sotto diversi profili, non avendo il consulente effettuato tutti gli accertamenti necessari presso i pubblici registri immobiliari.
NORMATIVA E PRECEDENTI
La pronuncia del Tribunale di Napoli si fonda su alcuni principi cardine del diritto successorio italiano, radicati in norme di rango primario che tutelano la libertà testamentaria e la genuinità della volontà del disponente. Il quadro normativo di riferimento è costituito principalmente dagli articoli 458, 589, 637 e 556 del codice civile, che delineano i confini entro i quali può esplicarsi la volontà successoria.
L’articolo 589 del codice civile sancisce il divieto di testamento congiuntivo, stabilendo espressamente che “non si può fare testamento da due o più persone nel medesimo atto, né a vantaggio di un terzo, né con disposizione reciproca“. Questa norma esprime un principio fondamentale dell’ordinamento successorio italiano: ogni testamento deve essere frutto della volontà individuale e autonoma del testatore, non condizionata né influenzata dalla contestuale manifestazione di volontà di un’altra persona. Il divieto riguarda sia il testamento congiuntivo reciproco, nel quale due soggetti si istituiscono reciprocamente eredi, sia il testamento congiuntivo simultaneo, nel quale due o più persone dispongono nello stesso atto a favore di terzi.
La ratio della norma risiede nella tutela della libertà testamentaria, intesa come possibilità per ciascun soggetto di revocare in qualsiasi momento le proprie disposizioni di ultima volontà senza dover rendere conto ad altri. Il testamento congiuntivo creerebbe un vincolo psicologico e morale tra i disponenti, limitando di fatto la possibilità di modificare successivamente le proprie volontà. Inoltre, il divieto serve a evitare che la manifestazione di volontà di un soggetto possa influenzare o condizionare quella dell’altro, compromettendo l’autenticità della dichiarazione testamentaria.
L’articolo 458 del codice civile stabilisce il divieto di patti successori, disponendo che “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi“. Questa norma vieta tre tipologie di patti: i patti istitutivi, con i quali un soggetto si obbliga a disporre per testamento in favore di un altro; i patti dispositivi, con i quali si dispone di diritti che deriveranno da una successione non ancora aperta; i patti rinunciativi, con i quali si rinuncia preventivamente a diritti successori futuri.
Il fondamento del divieto risiede nella necessità di preservare la libertà di testare fino all’ultimo momento di vita e di evitare che accordi contrattuali possano vincolare la volontà del disponente o generare aspettative giuridicamente tutelate in capo a soggetti terzi. La legge italiana vuole garantire che nessuno possa impegnarsi contrattualmente in ordine alla propria successione, mantenendo sempre la possibilità di modificare le proprie disposizioni testamentarie.
L’articolo 637 del codice civile disciplina l’inefficacia del termine nelle disposizioni testamentarie, stabilendo che “si ha per non apposto qualunque termine dal quale si faccia dipendere l’efficacia o la risoluzione di una disposizione a titolo universale o particolare“. Questa norma sancisce che il termine iniziale o finale apposto a una disposizione testamentaria è giuridicamente irrilevante, con la conseguenza che la disposizione produce effetti immediati all’apertura della successione, indipendentemente dall’avveramento del termine.
La giurisprudenza ha costantemente ribadito che il termine apposto a una disposizione testamentaria si considera come non scritto, in quanto contrasta con la natura stessa dell’istituzione ereditaria che deve produrre effetti immediati al momento dell’apertura della successione. L’eventuale subordinazione degli effetti a un momento successivo genererebbe incertezza sulla titolarità dei beni ereditari e comprometterebbe la certezza dei rapporti giuridici.
L’articolo 556 del codice civile stabilisce il criterio temporale per la valutazione dei beni nelle azioni di riduzione, disponendo che “la riduzione delle donazioni si opera in base al valore che i beni donati avevano al tempo dell’apertura della successione“. Questa norma è rilevante nelle controversie successorie perché determina il momento in cui deve essere effettuata la stima dei beni per verificare l’eventuale lesione della quota di legittima.
Il principio sotteso alla norma è quello di ancorare la valutazione patrimoniale a un momento certo e oggettivo, quale è l’apertura della successione, evitando che oscillazioni di valore successive possano alterare la determinazione delle quote spettanti ai legittimari. La giurisprudenza ha chiarito che questo criterio si applica non solo alle donazioni ma anche alle disposizioni testamentarie che si assumono lesive della quota di riserva.
Il Tribunale di Napoli ha fatto inoltre riferimento a importanti precedenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione che hanno contribuito a delineare i confini applicativi delle norme in esame. In particolare, la sentenza delle Sezioni Unite numero 26242 del 12 dicembre 2012 ha affermato il principio secondo cui la nullità è volta alla tutela di interessi prettamente generali dell’ordinamento, afferenti a valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale. La pronuncia ha ribadito che il rilievo d’ufficio della nullità costituisce una garanzia irrinunciabile dell’effettività dei valori fondamentali e che tale rilievo è sempre obbligatorio da parte del giudice.
