Licenziamento ritorsivo: quando è nullo e quando illegittimo? La Cassazione fa chiarezza

Licenziamento ritorsivo: quando è nullo e quando illegittimo? Cassazione – Sezione Lavoro, con sentenza 741/2024, chiarisce la differenza.

MASSIMA – Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 09/01/2024, n. 741

Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è considerato un licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c. L’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio. Si tratta di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole. Poiché, dunque, il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, quando il licenziamento sia intimato a fronte di una condotta inadempiente del lavoratore, l’eventuale sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente come ritorsivo il licenziamento stesso”.


Svolgimento del processo

1. D.D. ha agito in giudizio, dinanzi al Tribunale di Padova in funzione di giudice del lavoro, per far dichiarare la nullità o, in subordine, l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla A.A. Spa l’11.03.2016.

2. Il tribunale, all’esito della fase sommaria, ha respinto il ricorso giudicando legittimo il licenziamento; il medesimo tribunale, con sentenza emessa nel giudizio di opposizione, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva ed ha applicato la tutela prevista dall’art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.

3. La Corte d’appello di Venezia ha accolto il reclamo principale del lavoratore e, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato nullo, perché ritorsivo, il licenziamento condannando la società a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno commisurato all’ ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all’ effettiva reintegra; ha respinto il reclamo incidentale della società.

4. La Corte territoriale ha premesso in fatto:

– che il D.D., dipendente della A.A. Spa quale gerente del negozio, inquadrato nel primo livello del c.c.n.l. Commercio, era stato trasferito da A.A. a F.F. con decorrenza dal 10.9.2012;

– che il trasferimento, impugnato dal lavoratore, era stato dichiarato illegittimo dal Tribunale di Lodi con sentenza n. 269/2013, che aveva ordinato il ripristino del rapporto di lavoro presso la sede di A.A.;

– che il trasferimento presso la sede di A.A. era stato eseguito solo l’1.4.2014;

– che nello stesso mese di aprile 2014, secondo quanto riferito dal teste G.G., il superiore gerarchico H.H. aveva sollecitato i dipendenti a segnalare tutte le possibili mancanze del D.D.;

– che il 22.9.2014 fu redatto, su iniziativa del dipendente H.H., un documento contenente rimostranze nei confronti del D.D. per la gestione disordinata del negozio e per la tendenza a scaricare le responsabilità sugli altri dipendenti; furono raccolte le firme dei colleghi di lavoro di adesione a tale documento;

– che il D.D. il 27.09.2014 richiese, tramite e-mail, un colloquio con la direzione senza ricevere alcun riscontro;

– che dopo pochi mesi il predetto cominciò a ricevere una serie dì contestazioni disciplinari: il 22.06.15 per mancanze di carattere organizzativo sulla disposizione del1’abbigliamento (sanzionate con la multa per due ore); il 26.06.15 per la custodia, presso il proprio domicilio anziché presso il negozio, della carta di debito per versamenti (sanzionata con la multa per due ore); il 22.07.15 per l’errata esposizione di prezzi dell’abbigliamento (sanzionata con la multa per quattro ore);

– che il 6.8.15 si tenne un incontro tra il H.H. e il D.D. il cui contenuto risulta dalla trascrizione della conversazione nel corso della quale “la volontà espulsiva della società viene manifestata platealmente” (sentenza d’appello, pag. 22, penultimo cpv.);

– che il 18.08.15 era stata mossa una quarta contestazione disciplinare per errata richiesta al Comune dell’autorizzazione ad una vendita promozionale (sanzionata con la sospensione della retribuzione per quattro giorni);

– che tutte le sanzioni disciplinari sono state impugnate giudizialmente dal lavoratore.

5. I giudici di appello hanno dato atto che la contestazione disciplinare (del febbraio 2016) posta a base del licenziamento comprendeva più fatti; in particolare, era stato contestato al D.D. “superiore della dipendente H.H., di aver avuto una discussione con la collega in relazione a questione sui recuperi di ore straordinario, degenerata con lo strattonamento per un polso della donna e con temporaneo impedimento (alla stessa) di allontanarsi dalla zona ove la discussione si svolgeva (il bancone del. negozio ove i due lavoravano), frapponendosi (il D.D.) con il corpo” (sentenza pag. 5, penultimo cpv.; la contestazione è trascritta nel ricorso per cassazione, pag. 5-6); che era stata inoltre contestata la non corretta di disposizione della merce nel negozio e l’errore in un cartellino, cioè un errore di testo sulla promozione del 30% (pag. 6, primo cpv.); che il giudice della fase di opposizione aveva ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva per il primo episodio e giudicato gli altri addebiti punibili con sanzione conservativa.

6. La sentenza impugnata ha confermato la decisione di primo grado, quanto al difetto di’ proporzionalità della sanzione espulsiva; ha affermato che “il licenziamento non è giustificato anche nel caso di carenza di proporzionalità e, quindi, non sussiste la giusta causa che lo determina. Non è quindi corretto l’assunto della difesa della reclamata secondo cui la mera sussistenza del fatto addebitato consente di escludere che vi sia un unico ed esclusivo motivo determinante il licenziamento costituito dall’intento ritorsivo. Diversamente basterebbe verificare la sussistenza di qualsiasi fatto, seppure di minimo rilievo disciplinare, per consentire al datore di licenziare il dipendente senza che l’intento di. rappresaglia rilevi” (pag. 17, ultimi due cpv.). Alla luce di tutte le considerazioni svolte, ha concluso che “l’unico motivo determinante il licenziamento è costituito dall’intento ritorsivo della società” (pag. 23, penultimo cpv.).

7. Avverso tale sentenza la A.A. Spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. D.D. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.

8. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis. l c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 149 del 2022.

Motivi della decisione

9. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 1, legge n. 604 del 1966. Si censura la decisione d’appello per motivazione perplessa e incomprensibile nella parte in cui ha respinto il terzo motivo di reclamo incidentale negando che la condotta addebitata al lavoratore ed accertata, in base alla deposizione -giudicata attendibile- della teste H.H., integrasse gli estremi di una violenza privata, quindi da qualificare in termini di particolare gravità, anche in ragione (oltre che della differenza di genere e dì statura tra i due) del ruolo del D.D. quale gerente del negozio e superiore gerarchico della H.H., avente mansioni di commessa.

10. Con il secondo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento al grado apicale del D.D. e alla sussistenza del vincolo, di subordinazione gerarchica tra il predetto e H.H..

11. Con il terzo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 1345 c.c. e dell’art. 18, primo comma, della legge n. 300 del 1970, modificata dalla legge n. 92 del 2012, per avere la Corte di merito deciso in contrasto con l’orientamento di legittimità, secondo cui il motivo illecito deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed essere esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; mentre nel caso in esame, il motivo lecito formalmente addotto, cioè l’addebito contestato, sussiste, se pure giudicato tale da non integrare una giusta causa di recesso.

Si sostiene che, a fronte di condotte aventi rilievo disciplinare, anche se non giudicate rappresentative di una giusta causa di recesso, il giudice dovrà comunque valutare se il licenziamento è intervenuto per un errato (ma lecito) giudizio prognostico datoriale di non proseguibilità del rapporto, oppure per cogliere una (illecita) occasione di liberarsi di un dipendente indesiderato.

12. Con il quarto motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 101, 115, 116 c.p.c. e dell’art. 2712 c.c., per avere i giudici di appello utilizzato come prova la registrazione della conversazione telefonica tra il D.D. e H.H., sebbene intramezzata da espressioni incomprensibili, e per non avere ammesso la prova testimoniale sul punto del H.H. e del I.I., ritualmente chiesta dalla società, valorizzando anzi, in modo non corrispondente al vero, la mancata richiesta di prova su tale conversazione.

13. È preliminare in ordine logico lo scrutinio del terzo motivo di ricorso, che è fondato.

14. Nella qiurisprudenza di questa Corte, il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è considerato un “licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell’art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c.” (Cass. n. n. 17087 del 2011 in motivazione).

15. Si è valorizzata la disposizione dettata dall’art. 1345 c.c. che “derogando al principio secondo il quale i motivi dell’atto di autonomia privata sono di regola irrilevanti, eccezionalmente qualifica illecito il contratto determinato da un motivo illecito comune alle parti, in virtù del disposto di cui all’art. 1324 cod. civ.” e che “trova applicazione anche rispetto agli atti unilaterali;, laddove essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l’illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell’art.134 3 cod. civ., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume” (Cass. n. 20197 del 2005).

16. Il “motivo illecito” si colloca su un piano nettamente distinto dal (giustificato) motivo soggettivo e oqgettivo di licenziamento, previsto dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966.

Quest’ultimo, al pari della giusta causa (art. n. 2119 c.c.), costituisce presupposto del legittimo esercizio del potere (disciplinare o organizzativo) attribuito al datore di lavoro, la cui mancanza è causa di annullabilità del licenziamento.

17. Il motivo illecito, che deve avere efficacia determinativa esclusiva, rende l’atto datoriale contrario ai valori ritenuti fondamentali per l’organizzazione sociale e ne determina la nullità. Esso rileva “indipendentemente dal motivo formalmente addotto“, come recita l’art. 18, comma 1, della legge 300 del 1970, nella versione modificata dalla legge n, 92 del 2012 (secondo una formula già presente nell’art. 4, della legge 604 del 1966).

18. Il licenziamento ritorsivo è stato definito come “l’ingiunta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) e di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta” (Cass. n. 17087 del 2011; n. 24648 del 2015).

19. Più recentemente, si è tracciata una netta distinzione tra il licenziamento ritorsivo e quello discriminatorio (v. per tutte Cass. n. 6575 del 2016), anche alla luce dell’espressa previsione delle due distinte figure nella legge 92 del 2012 che, accanto al licenziamento discriminatorio, contempla quello “determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del Codice civile“, v. l’art. 1, comma 42, L. n. 92/2012).

20. L’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento perché fondato su motivo illecito esige la prova che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo dì recesso e idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto (v. Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass. n. 21465 del 2022; n. 9468 del 2019 da ultimo v. Cass. n. 6838 del 2023), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oqqettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass . n. 6838 del 2023 cit.; n. 5555 del 2011).

21. Si è precisato che “l’onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio” e che si tratta “di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” {così Cass. n. 17087 del 2011 cit. in motivazione).

22. Poiché il motivo illecito attiene alla sfera dell’elemento psicologico o alla finalità dell’atto datoriale, la sua efficacia determinativa esclusiva va verificata in relazione all’assenza di altre motivazioni o ragioni astrattamente lecite, restando su un piano ancora diverso la valutazione di tali ragioni rispetto ai parametri normativi di giusta causa o giustificato motivo.

23. Da tali premesse discende che, poiché il licenziamento per ritorsione costituisce la reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, ove il potere di recesso esercitato a fronte di una condotta inadempiente di rilievo disciplinare, la concreta valutazione di gravità dell’addebito nel senso della sproporzione della sanzione espulsiva, se pure può avere rilievo presuntivo, non può tuttavia portare a giudicare automaticamente ritorsivo il licenziamento, occorrendo, perché il motivo illecito possa assurgere a fattore unico e determinate, che la ragione addotta e comprovata risulti meramente formale o apparente o sia, comunque, tale, per le concrete circostanze di fatto o per la modestissima rilevanza disciplinare, da degradare a semplice pretesto per l’intimazione del licenziamento, sì che questo risulti non solo sproporzionato ma volutamente punitivo.

24. In tema di licenziamento nullo, il carattere unico e determinante del motivo ritorsivo non può desumersi unicamente dalla mancata integrazione, per difetto dì proporzionalità, dei parametri normativi della giusta causa, ma è necessario che la prova presuntiva poggi su elementi ulteriori, come l’elevato grado di sproporzione della sanzione espulsiva, anche rispetto alla scala valoriale espressa dalla contrattazione collettiva, idonei a giustificare la collocazione dell’atto datoriale nella sfera della illiceità, anziché in quella della illegittimità.

25. A tali principi non si è attenuta la sentenza impugnata che, se pure ha accertato la commissione dell’illecito disciplinare (respingendo l’appello incidentale del D.D. basato sulla non credibilità della dipendente che ne era stata vittima), ed ha confermato la valutazione del tribunale in ordine alla sproporzione della sanzione espulsiva, tuttavia, a differenza del primo giudice (che aveva applicato la tutela indennitaria di cui all’art. 18, comma 5 cit.), ha attribuito efficacia determinativa esclusiva al motivo ritorsivo solo a causa della inidoneità dell’addebito, per difetto di proporzionalità, a integrare una giusta causa di licenziamento, così finendo per confondere e per sovrapporre le categorie della nullità e della illegittimità del recesso.

25. Per le ragioni fin qui esposte va accolto il terzo motivo di ricorso e, assorbì ti gli altri motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie conformandosi ai principi sopra richiamati e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione

Così deciso nell’adunanza camerale dell’8 novembre 2023

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2024.

Avv. Cosimo Montinaro (avvocato del lavoro)

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