Malasanità e perdita di chance: la Corte d’Appello chiarisce definitivamente quando il danno da morte anticipata NON è trasmissibile agli eredi – Corte d’Appello L’Aquila 2025

Una vicenda di malasanità ospedaliera ha offerto alla Corte d’Appello dell’Aquila l’occasione per chiarire definitivamente uno dei temi più dibattuti nel diritto sanitario: quando il danno da perdita anticipata della vita può considerarsi trasmissibile agli eredi della vittima e quando invece deve ritenersi completamente intrasmissibile. La questione si inserisce nel più ampio panorama della responsabilità medica e delle conseguenze risarcitorie che derivano dagli errori diagnostici e terapeutici che causano la morte del paziente.

La complessa fattispecie ha coinvolto una paziente sottoposta a coronarografia d’urgenza presso una struttura ospedaliera, durante la quale si è verificata una lesione iatrogena dell’arteria femorale che ha contribuito al successivo decesso della donna. I familiari della vittima hanno intrapreso un’azione legale per ottenere il risarcimento del danno sia per la perdita del rapporto parentale, sia per il danno terminale subito dalla congiunta nelle fasi che hanno preceduto la morte.

Il caso presenta profili di particolare interesse giuridico perché tocca la delicata distinzione tra diverse tipologie di danno nel campo della responsabilità sanitaria: da un lato il danno da perdita di chance di sopravvivenza, dall’altro il danno da perdita anticipata della vita, due voci risarcitorie che spesso vengono confuse ma che presentano presupposti e conseguenze giuridiche completamente diverse. La Corte d’Appello dell’Aquila, con la sentenza del 2025, ha fornito un contributo fondamentale alla chiarificazione di questi concetti, stabilendo principi che avranno inevitabilmente ripercussioni su tutti i futuri contenziosi in materia di malasanità.

La decisione assume particolare rilevanza anche sotto il profilo processuale, poiché affronta la questione dell’ammissibilità delle domande risarcitorie formulate dagli eredi della vittima di errore medico, chiarendo quali siano i limiti temporali e sostanziali per la proposizione di tali istanze. La Corte ha dovuto confrontarsi con la giurisprudenza più recente delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha delineato un quadro normativo sempre più preciso in materia di danni da malasanità e di loro trasmissibilità ereditaria.

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Indice

  • ESPOSIZIONE DEI FATTI
  • NORMATIVA E PRECEDENTI
  • DECISIONE DEL CASO E ANALISI
  • ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI

La vicenda giudiziaria trae origine da una tragica sequenza di eventi verificatisi presso una struttura ospedaliera nel corso del 2016. Una paziente, già sottoposta in precedenza a trapianto renale e quindi portatrice di una patologia cronica che richiedeva costante monitoraggio medico, fu ricoverata d’urgenza presso il reparto di cardiologia per una sospetta sindrome coronarica acuta. Le condizioni cliniche della donna richiesero l’esecuzione immediata di una coronarografia d’urgenza, procedura invasiva ma necessaria per valutare lo stato delle arterie coronarie e pianificare eventuali interventi terapeutici.

Durante l’esecuzione dell’esame diagnostico, i sanitari tentarono di effettuare un’angioplastica sull’arteria interventricolare anteriore utilizzando l’approccio per via femorale destra. Tuttavia, il tentativo si rivelò inefficace a causa del mancato avanzamento delle guide utilizzate per raggiungere il sito dell’intervento. Questa difficoltà tecnica, che può verificarsi in presenza di particolari condizioni anatomiche o patologiche, costrinse i medici a modificare l’approccio terapeutico.

Al termine della procedura, venne posizionato il dispositivo femo-stop, uno strumento utilizzato per comprimere il punto di accesso vascolare e prevenire emorragie post-procedurali. Tuttavia, proprio durante questa fase, si verificò l’evento che avrebbe cambiato drammaticamente l’evoluzione del caso: il posizionamento del dispositivo causò una lesione iatrogena dell’arteria femorale destra della paziente. Questa complicanza, riconducibile secondo la successiva consulenza tecnica d’ufficio alla condotta dei sanitari, innescò una patologia acuta ingravescente che compromise irreversibilmente le condizioni cliniche della donna.

Le condizioni della paziente si deteriorarono rapidamente, rendendo necessario il trasferimento presso un altro ospedale dove erano disponibili strutture di livello superiore per il trattamento delle complicanze vascolari. Nonostante gli sforzi del personale medico della seconda struttura, la donna decedde dopo alcuni giorni dal trasferimento, lasciando i familiari nella devastante condizione di dover elaborare non solo il lutto, ma anche la consapevolezza che la morte poteva essere evitata se non si fosse verificata la lesione durante il primo ricovero.

I congiunti della vittima, dopo aver ottenuto una consulenza tecnica nell’ambito di un procedimento di accertamento tecnico preventivo, decisero di intraprendere un’azione legale per ottenere giustizia e il risarcimento dei danni subiti. La perizia aveva infatti accertato che la responsabilità per il decesso doveva essere attribuita per il 50% alla condotta colposa dei sanitari del primo ospedale, mentre il restante 50% era riconducibile alle pregresse condizioni patologiche della paziente.

NORMATIVA E PRECEDENTI

La questione giuridica affrontata dalla Corte d’Appello si inserisce in un complesso panorama normativo che trova le sue radici negli articoli 1218 e 2043 del Codice Civile, rispettivamente disciplinanti la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale. Nel campo della responsabilità sanitaria, questi principi si intrecciano con le disposizioni della Legge Gelli-Bianco (L. 24/2017) che ha ridisegnato il quadro della responsabilità medica, stabilendo che la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente sia di natura contrattuale, mentre quella del singolo medico dipendente rimanga ancorata ai principi della responsabilità extracontrattuale.

Un ruolo fondamentale nell’evoluzione giurisprudenziale della materia è stato svolto dalle Sezioni Unite della Cassazione, che hanno stabilito il principio secondo cui il danno da perdita della vita non è risarcibile in favore del soggetto deceduto, non essendo configurabile un diritto soggettivo alla vita di contenuto patrimoniale. Tale orientamento ha trovato ulteriore consolidamento nella giurisprudenza successiva, che ha chiarito come l’eventuale danno da morte possa essere risarcito esclusivamente ai congiunti della vittima iure proprio, in quanto titolari di un autonomo diritto al risarcimento per la perdita del rapporto parentale.

La giurisprudenza di legittimità più recente ha operato una distinzione fondamentale tra il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza. Secondo questo consolidato orientamento, mentre il primo non può mai essere trasmesso agli eredi della vittima perché presupporrebbe la risarcibilità del danno tanatologico (espressamente esclusa dal nostro ordinamento), il secondo costituisce un pregiudizio autonomo e distinto, risarcibile quando sia dimostrata la perdita di una possibilità seria, concreta e apprezzabile di vivere più a lungo.

La giurisprudenza ha inoltre consolidato i principi relativi al danno terminale, distinguendo tra la componente biologica (relativa alle sofferenze fisiche patite dalla vittima nel periodo precedente la morte) e quella morale o catastrofale (connessa alla lucida consapevolezza dell’approssimarsi della propria fine). Entrambe queste componenti, quando dimostrate, sono trasmissibili agli eredi iure successionis, in quanto si configurano come diritti patrimoniali già entrati nel patrimonio della vittima prima del decesso.

Per quanto riguarda la quantificazione dei danni, la prassi giurisprudenziale consolidata fa riferimento alle Tabelle dell’Osservatorio di Milano per il danno biologico temporaneo, strumento che consente una liquidazione equitativa e uniforme dei pregiudizi subiti dalle vittime di illeciti. Tali tabelle prevedono una forbice di valori che consente al giudice di personalizzare la liquidazione in base alle specificità del caso concreto, potendo anche uscire dai parametri tabellari nelle ipotesi di eccezionale gravità del pregiudizio.

DECISIONE DEL CASO E ANALISI

La Corte d’Appello dell’Aquila ha confermato integralmente la decisione del Tribunale di primo grado, respingendo sia l’appello principale presentato dai familiari della vittima sia quello incidentale proposto dalla struttura sanitaria. La decisione si fonda su un’analisi approfondita dei principi giurisprudenziali più recenti in materia di responsabilità medica e di trasmissibilità dei danni agli eredi delle vittime di malasanità.