Risarcimento danni cagionati da animali randagi (Tribunale Lecce, sentenza n. 1627/2022)

Con riferimento ai danni cagionati da animali randagi, il Tribunale di Lecce, con sentenza n. 1627/2022 (Giudice Dott.ssa Caterina Stasi), dopo aver preliminarmente chiarito che la responsabilità applicabile è quella di cui all’art. 2043 cod. civ., ha statuito che, ai sensi della legge regionale pugliese (n. 2 del 03 aprile 1995), l’attività di ricovero e cattura di essi animali è estranea ai compiti dei Comuni, i quali devono limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera «accoglienza» dei cani, mentre al «ricovero» devono provvedere i soggetti tenuti al recupero dei cani randagi, e cioè i Servizi veterinari delle ASL.

Pertanto, il discrimine ai fini della responsabilità civile risiede dunque nella differenza fra «accoglienza» e «ricovero», posto che solo il secondo presuppone l’attività di recupero e cattura, mentre all’accoglienza si legano gli obblighi di custodia e mantenimento dei cani, la cui violazione, a seconda delle circostanze, è suscettibile di determinare la responsabilità civile.

Ritiene, comunque, il Tribunale che, sebbene non vi sia un dovere a carico dei Comuni di recupero e cattura dei cani randagi quale obbligo giuridico la cui violazione possa integrare una fattispecie di responsabilità civile, cionondimeno residua il dovere, da parte dell’ente territoriale, di segnalare alla competente ASL la presenza di cani randagi, ove ne abbia notizia.

Tuttavia, spetta, in ogni caso, al danneggiato l’onere di provare, anche per presunzioni, l’esistenza di segnalazioni o richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi (a cui, naturalmente, è seguita l’omissione colposa dell’Ente preposto (ASL) di non essersi adeguatamente attivato per la cattura, nonostante, appunto, l’esistenza di specifiche segnalazioni a riguardo).


Estratto della sentenza Tribunale Lecce n. 1627/2022, pubblicata il 01.06.2022

[…] Occorre preliminarmente chiarire che la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi deve ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 cod. civ., e non dalle regole di cui all’art. 2052 cod. civ., che non sono applicabili in considerazione della natura stessa di detti animali e dell’impossibilità di ritenere sussistente un rapporto di proprietà o di uso in relazione ad essi, da parte dei soggetti della pubblica amministrazione preposti alla gestione del fenomeno del randagismo (Cass. n. 17060/2018 e n. 18954/2017).

Nella fattispecie di illecito aquiliano che viene così configurandosi, l’individuazione dell’ente cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo rileva non sul piano della colpa, ma dell’imputazione della responsabilità omissiva sul piano causale: non può infatti essere la mera inosservanza dell’obbligo giuridico di provvedere alla cattura dell’animale randagio ad integrare la colpa rispetto ad un fenomeno, quale quello del randagismo, la cui prevenzione totale si sottrae ai parametri della condotta esigibile non potendo essere del tutto impedito che un animale randagio possa, comunque, trovarsi in un determinato momento sul territorio: l’omissione deve quindi essere espressione di un comportamento colposo dell’ente preposto, quale il non essersi adeguatamente attivato per la cattura nonostante l’esistenza di specifiche segnalazioni della presenza abituale dell’animale nel territorio di competenza dell’ente preposto, cadendosi diversamente in un’ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 cod. civ. (Cass. n. 18954/2017).

L’esistenza dell’obbligo giuridico fonda l’antigiuridicità della condotta omissiva, nel senso che l’efficienza dell’omissione sul piano causale rispetto all’evento dannoso diventa giuridicamente rilevante ai fini dell’imputazione dell’evento in presenza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, secondo il paradigma dell’art. 40, comma 2, cod. pen.; deve pertanto accertarsi se, con riferimento al Comune ricorrente, si configurasse l’obbligo giuridico di provvedere alla cattura dell’animale.

L’art. 6 della legge reg. Puglia 03 aprile 1995, n. 12, la cui rubrica reca “Recupero cani randagi”, prevede: «1. Spetta ai Servizi veterinari delle USL il recupero dei cani randagi. 2. In caso di recupero dei cani vaganti regolarmente anagrafati si provvede alla restituzione al legittimo proprietario. I cani non anagrafati vengono iscritti all’anagrafe canina e, se non reclamati entro sessanta giorni, possono essere ceduti gratuitamente a privati maggiorenni, a enti e associazioni protezionistiche. 3. Prima della scadenza del termine di cui al precedente comma 2 possono essere ceduti in affidamento temporaneo, con l’impegno, da parte degli affidatari, di restituirli ai proprietari che li richiedessero entro i sessanta giorni.4. Il recupero dei cani randagi deve essere effettuato in modo indolore e senza arrecare traumi all’animale. 5. La soppressione così come prevista dagli articoli 86, 87 e 91 del DPR 8 febbraio 1954, n. 320 e dall’ art. 2, comma 6, della legge 14 agosto 1991, n. 281, deve essere effettuata esclusivamente dai medici veterinari, anche liberi professionisti, con metodo eutanasico».

Con riferimento alle competenze comunali prevede l’art. 2: «1. Le funzioni di vigilanza sul trattamento degli animali, la tutela igienico – sanitaria degli stessi, nonché i controlli connessi all’ attuazione della presente legge sono attribuiti ai Comuni, che li esercitano mediante le Unità sanitarie locali (USL), ai sensi dell’art. 5 della legge regionale 2 agosto 1989, n. 13. 2. Per le funzioni di cui al precedente comma 1, le USL possono avvalersi della collaborazione delle Guardie zoofile di cui al successivo art. 15 e degli enti ed associazioni di cui all’art. 13 della presente legge». Infine, prevede l’art. 8: «I Comuni, singoli o associati, provvedono alla costruzione o al risanamento dei canili sanitari esistenti di cui all’art. 84 del dpr 8 febbraio 1954, n. 320 secondo i criteri stabiliti, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, dalla Giunta regionale. Per le predette finalità i Comuni possono utilizzare i fondi rivenienti dagli oneri di urbanizzazione. 2. I canili sanitari rappresentano la struttura nella quale trovano accoglienza i cani recuperati in quanto vaganti. Presso tali strutture i suddetti cani saranno anagrafati e sottoposti agli interventi sanitari di cui all’ art. 2, comma 5, della legge 14 agosto 1991, n. 281. Presso i 8 canili sanitari i cani stazioneranno per il periodo di sessanta giorni in attesa di riscatto o affidamento o cessione a norma del precedente art. 6, comma 3, previo trattamento profilattico. 3. La gestione dei canili sanitari è affidata ai Comuni. E’ fatto obbligo ai Servizi veterinari delle USL di garantire adeguata assistenza sanitaria ai suddetti canili, ricorrendo al Servizio di pronta disponibilità. 4. I Comuni prevedono nel proprio bilancio stanziamenti sufficienti per la manutenzione dei canili sanitari e il sostentamento dei cani ricoverati e custodia».

Dal quadro normativo che precede risulta evidente che funzione tipica dell’obbligo giuridico di recupero dei cani randagi a carico dei Servizi veterinari delle ASL è quella di prevenire eventi dannosi quale quello per cui è causa.

Ebbene, resta da chiarire se, in base a diverso titolo, ricorra anche l’obbligo giuridico del Comune: tale responsabilità va misurata non con riferimento ai controlli connessi all’attuazione della legge n. 12 del 1995, previsti dall’art. 2, che sono esercitati mediante pur sempre l’Azienda sanitaria locale ed hanno carattere eminentemente amministrativo, ma con riferimento all’obbligo di costruzione o risanamento dei canili sanitari esistenti e di gestione degli stessi. « I canili sanitari rappresentano la struttura nella quale trovano accoglienza i cani recuperati in quanto vaganti», prevede la norma.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha ritenuto, nella citata sentenza n. 17060/2018 (che, tra l’altro, indica le differenze con la legge regionale del Lazio, per la cui applicazione era stata pronunciata la sentenza n. 15167/2017, secondo la quale la normativa regionale laziale va interpretata nel senso che spetta ai comuni, non solo la custodia, ma anche la cattura dei cani vaganti e randagi, dal momento che questa costituisce il presupposto del ricovero nelle apposite strutture comunali) che la normativa regionale pugliese corrobori quell’indirizzo ermeneutico tradizionale secondo il quale la vigilanza sui cani randagi spetta alle A.S.L., mentre sui Comuni non può ricadere il giudizio di imputazione dei danni (Cass. n. 27001/2005; n. 17737/2008 e n. 8137/2009).

Può, dunque, ritenersi che l’obbligo giuridico di costruzione e gestione di canili sanitari per l’accoglienza di cani vaganti è astrattamente suscettibile di integrare il requisito di antigiuridicità di un contegno omissivo ai fini dell’imputazione causale di un evento dannoso, o anche il requisito soggettivo di una condotta colposa da identificare con la mera inosservanza di legge se le circostanze lo consentono, ma resta estraneo alla funzione tipica della prevenzione dei rischi derivanti dal randagismo, di cui è espressione l’evento dannoso per cui è causa, in quanto non comporta l’obbligo dell’attività di recupero, ma solo quello di accoglienza dei cani randagi.

Tuttavia, alla luce della normativa richiamata e dell’opzione ermeneutica esercitata dall’organo nomofilattico, tale attività di ricovero (implicante la cattura) è estranea ai compiti dei Comuni secondo la legge della Regione Puglia, i quali devono limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera «accoglienza» dei cani, mentre al «ricovero» evidentemente provvedono i soggetti tenuti al recupero dei cani randagi, e cioè i Servizi veterinari delle ASL: il discrimine ai fini della responsabilità civile risiede dunque nella differenza fra «accoglienza» e «ricovero», posto che solo il secondo presuppone l’attività di recupero e cattura, mentre all’accoglienza si legano gli obblighi di custodia e mantenimento dei cani, la cui violazione, a seconda delle circostanze, è suscettibile di determinare la responsabilità civile.

Ritiene dunque il Tribunale che sebbene non vi sia un dovere a carico dei Comuni di recupero e cattura dei cani randagi quale obbligo giuridico la cui violazione possa integrare una fattispecie di responsabilità civile, cionondimeno residua il dovere, da parte dell’ente territoriale, di segnalare alla competente ASL la presenza di cani randagi, ove ne abbia notizia.

Quanto, invece, ai profili di responsabilità della ASL, si deve osservare che, secondo la più recente giurisprudenza sul punto, “la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi è disciplinata dalle regole generali di cui all’art. 2043 c.c., e non da quelle stabilite dall’art. 2052 c.c., sicché presuppone l’allegazione e la prova, da parte del danneggiato, di una concreta condotta colposa ascrivibile all’ente e della riconducibilità dell’evento dannoso, in base ai principi sulla causalità omissiva, al mancato adempimento di una condotta obbligatoria in concreto esigibile, mentre non può essere affermata in virtù della sola individuazione dell’ente al quale è affidato il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo, ovvero quello di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi” (Cass. n. 31957/2018).

Ora, a prescindere dal fatto che la richiamata sentenza – pronunciandosi in occasione di una fattispecie accaduta in Sicilia – si riferisca alla responsabilità dell’ente pubblico territoriale, che in Puglia, come si è visto, non è destinatario dell’obbligo di recuperare i cani randagi – indipendentemente dalla questione relativa alla legittimazione passiva, sopra affrontata, può estrapolarsi il principio di diritto, da applicare anche alla presente ipotesi.

È ben vero, infatti, come ripetutamente ribadito nei paragrafi che precedono, che non può essere la mera inosservanza dell’obbligo giuridico di provvedere alla cattura dell’animale randagio ad integrare la colpa rispetto ad un fenomeno, quale quello del randagismo, la cui prevenzione totale si sottrae ai parametri della condotta esigibile non potendo essere del tutto impedito che un animale randagio possa comunque trovarsi in un determinato momento sul territorio, si ribadisce (Cass. n. 17060/2018 cit.).

E ancora, la recente giurisprudenza ha precisato che “in base al principio del neminem laedere, la P.A. è responsabile dei danni riconducibili all’omissione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono il limite esterno alla sua attività discrezionale“, sicché “in presenza di obblighi normativi, la discrezionalità amministrativa si arresta, poiché l’ente è tenuto ad evitare o ridurre i rischi connessi all’attività di attuazione della funzione attribuitale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 26 maggio 2020, n. 9671, Rv. 661740-01; nello stesso anche Cass. Sez. 6-3, ord. 9 novembre 2021, n. 32884, Rv. 662964-01); di conseguenza, è stato evidenziato che, “poiché è fuori discussione che l’omissione di una condotta rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, allorché si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l’esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell’evento, in caso di concretizzazione del rischio che la norma violata tende a prevenire, il nesso di causalità che astringe a quest’ultimo i danni conseguenti, rimane presuntivamente provato” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. n. 9671 del 2020, cit.; in senso conforme, Cass. Sez. 6-3, ord. n. 32884 del 2021, cit.); ne deriva, così, che “l’onere del danneggiato di provare, anche per presunzioni, l’esistenza di segnalazioni o richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi” — valorizzato dalla Corte con le pronunce sopra citate (Cass. Sez. 3, sent. n. 17060 del 2018, cit. e Cass. Sez. 3, ord. n. 18954 del 2017, cit.) — si colloca “a valle” rispetto a quello “del soggetto (ASL) tenuto per legge alla predisposizione di un servizio di recupero di cani randagi abbastanza articolato, di provare di essersi attivato rispetto all’onere cautelare previsto dalla normativa regionale“.

In altre parole, come si è detto, il servizio di recupero dei cani randagi grava sulle ASL e la domanda risarcitoria è fondata su un fatto che costituisce concretizzazione del rischio che la norma cautelare mira ad evitare, sicché, visto che l’osservanza della norma cautelare implica l’approntamento di un servizio organizzato, spetta alla ASL dedurre e dimostrare di avervi dato compiuta osservanza in base ai principi generali in materia di nesso di causalità e di responsabilità colposa, pertanto, solo una volta che questa prova fosse stata data, spetta all’attore dedurre e dimostrare che, per esempio, il servizio era stato approntato solo sulla carta, ma che in realtà non era operativo o aveva, nella fattispecie, funzionato male, perché c’erano state specifiche segnalazioni che non avevano avuto seguito.

L’omissione deve quindi essere espressione di un comportamento colposo dell’ente preposto, quale il non essersi adeguatamente attivato per la cattura nonostante l’esistenza di specifiche segnalazioni della presenza abituale dell’animale nel territorio di competenza dell’ente preposto.

Nella fattispecie sub iudice, le evidenze istruttorie emerse nel corso del giudizio di primo grado non consentono di ritenere sussistenti gli estremi per riconoscere la violazione dei suddetti obblighi legislativi in capo al Comune, poiché – a parte ogni valutazione in ordine alla effettiva qualità di randagio dell’animale, di cui immediatamente appresso – non risulta che il cane che avrebbe provocato l’incidente per cui è causa sia stato oggetto di precedenti segnalazioni. […]

Avv. Cosimo Montinaro

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