Una recente pronuncia giudiziaria ha acceso i riflettori sulla responsabilità medica derivante dalla mancata o tardiva diagnosi di patologie croniche dell’apparato digerente. Il caso esaminato riguarda un paziente che, a seguito di ripetuti accessi al pronto soccorso per sintomi persistenti quali algie addominali, proctorragia e alternanza di stipsi e diarrea, non ha ricevuto una diagnosi tempestiva di Morbo di Crohn nonostante un quadro clinico che, secondo quanto rilevato in sentenza, presentava elementi sufficienti per indurre i sanitari ad approfondimenti diagnostici specifici.
La responsabilità sanitaria in casi di omessa diagnosi rappresenta una delle questioni più delicate nell’ambito del diritto della salute, poiché incide direttamente sul decorso della malattia e sulla qualità della vita del paziente. Nel caso in esame, il Tribunale di Bari si è trovato a valutare se e in quale misura il ritardo nella diagnosi del Morbo di Crohn abbia contribuito all’aggravamento della patologia, determinando la necessità di interventi chirurgici che, con una diagnosi tempestiva, avrebbero potuto essere evitati o quantomeno posticipati.
La vicenda processuale si inserisce nel più ampio dibattito giurisprudenziale sulla natura contrattuale della responsabilità medica e sul riparto dell’onere probatorio tra paziente e struttura sanitaria. Il Tribunale ha dovuto valutare, alla luce delle emergenze istruttorie e delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, se vi sia stato un inadempimento qualificato da parte dei sanitari e se questo sia stato causa, o concausa, del danno lamentato dall’attore.
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Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI
Il caso portato all’attenzione del Tribunale di Bari riguarda un paziente che, a partire dal gennaio 2014, aveva iniziato a manifestare algie addominali ricorrenti, accompagnate da un’alternanza di alvo stitico e diarroico. La situazione clinica si era aggravata nel maggio dello stesso anno, quando il paziente si era recato presso l’Unità di Pronto Soccorso di un ospedale denunciando la comparsa di proctorragia (emorragia dell’intestino retto).
In questa prima occasione, a seguito di visita specialistica, i medici avevano diagnosticato la presenza di una ragade anale sul lato destro, prescrivendo una terapia farmacologica e consigliando l’effettuazione di esami di approfondimento, tra cui una rettosigmoscopia. Il paziente aveva assunto i farmaci prescritti ma non si era sottoposto all’esame specialistico consigliato.
Il quadro clinico, tuttavia, non migliorava e, dopo circa due mesi, precisamente il 21 luglio 2014, il paziente era tornato al pronto soccorso lamentando dolori al fianco sinistro, associati a stipsi e rialzo febbrile. In questa occasione, era stata diagnosticata una “sospetta appendicopatia – sospetta appendicite acuta“, con conseguente ricovero. L’esame istologico aveva confermato la presenza di un’appendicite e periappendicite acuta flemmosa, portando i medici a procedere, il giorno successivo, con un’appendicectomia.
Dimesso il 25 luglio 2014 con diagnosi di “appendicite acuta senza menzione di peritonite, perforazione o rottura“, il paziente aveva continuato a soffrire di sintomatologia algica a livello della fossa iliaca di destra. Questa persistenza dei sintomi lo aveva portato, già il 1° agosto 2014 – appena sei giorni dopo le dimissioni – a tornare presso lo stesso presidio ospedaliero, dove era stata effettuata un’ecografia. Il paziente era stato dimesso con diagnosi di iperpiressia (febbre molto alta) in soggetto appendicectomizzato.
La situazione non accennava a migliorare e, nei giorni successivi, il paziente era stato costretto a ulteriori accessi al pronto soccorso. Il 6 agosto 2014, un nuovo ricovero aveva portato a un’ecografia che evidenziava la presenza di “circoscritti livelli idro-aerei apprezzabili in sede centro addominale“. Pochi giorni dopo, l’11 agosto, un’altra ecografia aveva segnalato anche un “ispessimento parietale dell’ultima ansa dell’ileo, bande icogene (fistole?), mesentere ispessito e ipercogeno come per flogosi“.
Il 16 agosto 2014, a soli tre giorni dalle dimissioni precedenti, il paziente era stato nuovamente ricoverato con diagnosi di addominalgia nel quadrante inferiore destro. L’ecografia aveva evidenziato la presenza di modesta quota di versamento nello scavo pelvico. Durante questo ricovero, era stata eseguita anche un’esofagogastroduodenoscopia che aveva rilevato un’ernia iatale da scivolamento.
Dimesso il 20 agosto 2014, con indicazione di visita gastroenterologica, ecografia addominale e colonscopia, il paziente, non riscontrando alcun miglioramento del quadro clinico e della sintomatologia, si era recato, il 23 agosto, presso un altro presidio ospedaliero, l’IRCCS S. De Bellis di Castellana Grotte. Qui, finalmente, grazie a una serie di esami più approfonditi (entero RM, colonscopia, biopsia, eco-addome), era stata diagnosticata la presenza del Morbo di Crohn.
A causa dell’avanzata degenerazione delle fistole e di una peritonite diffusa da perforazione intestinale, il 3 ottobre 2014 il paziente era stato sottoposto a un’operazione urgente di resezione in blocco ileo cecale ed ileostomia a canna di fucile per perforazione in corrispondenza della doppia fistola. Successivamente, il 12 dicembre 2014, aveva subito un altro intervento chirurgico (ileostomia temporanea di protezione) con ricanalizzazione intestinale e ripristino del transito normale.
Il percorso terapeutico del paziente era continuato presso il reparto di gastroenterologia del “Campus Biomedico” di Roma, dove, il 20 aprile 2015, era stato sottoposto a un ulteriore intervento chirurgico di laparotomia esplorativa con confezionamento di una nuova anastomosi ileo-colica e resezione della pregressa.
La vicenda giudiziaria ha preso avvio dopo che il procedimento di mediazione, tentato preventivamente, non aveva sortito alcun esito positivo. L’attore ha quindi citato in giudizio la struttura sanitaria, chiedendo il risarcimento dei danni subiti a causa dell’errata diagnosi medica, quantificati in € 170.614,61.
NORMATIVA E PRECEDENTI
Il Tribunale di Bari, nella sua disamina giuridica del caso, ha preliminarmente affrontato la questione dell’inquadramento normativo della responsabilità medica, evidenziando come la materia sia stata oggetto di diversi interventi legislativi che hanno progressivamente modificato la sua disciplina e natura giuridica. Il collegio ha ricordato che il codice civile prevede, in materia di responsabilità professionale, un’unica disposizione, l’art. 2236 c.c., il quale stabilisce che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave“.
Tuttavia, stante l’inadeguatezza di questa norma a regolamentare una professione complessa come quella medica, il legislatore è intervenuto una prima volta nel 2012 con la c.d. Legge Balduzzi (legge n. 189 dell’8 novembre 2012, di conversione con modificazioni del D.L. n. 158 del 2012), e successivamente, nel 2017, con la c.d. Legge Gelli-Bianco (legge n. 24 del 2017).
La Legge Balduzzi, all’art. 3, comma 1, prevedeva che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del danno, tiene debitamente conto del primo periodo“. Questa norma è stata successivamente abrogata dalla Legge Gelli-Bianco, entrata in vigore l’1 aprile 2017.
La nuova normativa, all’art. 7, comma 3, stabilisce che “l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 5“.
Il Tribunale ha richiamato la giurisprudenza della Suprema Corte in materia di diritto intertemporale, secondo cui entrambe le norme, in assenza di una specifica disposizione transitoria, non hanno efficacia retroattiva e, pertanto, regolano unicamente fattispecie verificatesi successivamente alla loro entrata in vigore (Cass., 11 novembre 2019, n. 28994).
Nel caso di specie, poiché i fatti risalivano ai mesi di maggio-agosto del 2014, essi ricadevano sotto la disciplina della Legge Balduzzi, che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, non ha comportato alcun mutamento nel tradizionale inquadramento della responsabilità del medico che operi all’interno di una struttura ospedaliera come responsabilità contrattuale.
Il Tribunale ha citato diverse pronunce della Cassazione, tra cui l’ordinanza n. 8940 del 17 aprile 2014, secondo cui l’art. 3, comma 1, della Legge Balduzzi non esprime alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l’irrilevanza della colpa lieve.
In particolare, è stato ribadito il principio secondo cui l’art. 3, comma 1, della Legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto d’opera professionale. In tali casi, sia la responsabilità della struttura sanitaria (derivante dal cd. contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la responsabilità del medico (derivante dal contratto d’opera professionale) discendono da inadempimento e sono disciplinate dall’art. 1218 c.c., indipendentemente dal fatto che il creditore/danneggiato agisca nei confronti della sola struttura, del solo medico o di entrambi.
In merito alla distribuzione degli oneri probatori, il Tribunale ha richiamato il principio, sancito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 577 dell’11 gennaio 2008, secondo cui il paziente danneggiato deve provare l’esistenza del rapporto contrattuale, l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) ed il relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, potendosi limitare ad allegare l’inadempimento. Graverà invece sul debitore l’onere della prova dell’esatto adempimento, in assenza del quale l’inadempimento potrà ritenersi provato.
Con specifico riferimento al nesso di causalità, il Tribunale ha precisato che, in tema di responsabilità medica, sussiste nesso causale tra il comportamento della struttura sanitaria e/o del sanitario qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, c.d. regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non“, si ritenga che l’opera materialmente posta in essere dal professionista abbia causato o concorso a causare il danno verificatosi. In caso di condotta omissiva, occorre valutare se quell’opera, ove correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
Nell’affrontare la domanda attorea, il Tribunale di Bari ha ritenuto fondamentale basarsi sulle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio svolta nel corso del giudizio, definita come “esauriente, ampiamente motivata e totalmente condivisibile“. L’ausiliario del giudice ha evidenziato che “in presenza di segni o sintomi suggestivi di m. di Crohn non fu formulata una diagnosi e soprattutto il paziente fu dimesso con terapia medica sintomatica (lassativi, antidiarroici, fermenti lattici) e non specifica“, concludendo che “l’inerzia diagnostica e terapeutica può aver condotto ‘più probabilmente che non’ ad un aggravamento della malattia e all’insorgenza di complicanze“.
La consulenza ha rilevato che “si è prodotto un ritardo diagnostico” e che, anche con una valutazione ex ante, “la ricorrenza a breve distanza di tempo di una proctorragia da ragade anale ed appendicite acuta avrebbe meritato un approfondimento diagnostico“. Inoltre, “la sintomatologia dolorosa addominale occlusiva e gli esami strumentali eseguiti ad agosto 2014 (eco addome, RMN ecc) apparivano patognomonici di M di Crohn“, nonostante ciò “il paziente fu trattato più volte al P.S. dell’Ospedale venendo dimesso con terapia assolutamente generica e non specifica“.
Il consulente ha individuato diversi comportamenti omissivi da parte dei sanitari, tra cui “il mancato esame intraoperatorio dell’ultima ansa ileale in corso di appendicectomia, la mancata valutazione dell’ecografia addominale e degli altri esami strumentali, la mancata prescrizione di terapia medica specifica”, comportamenti che “possono aver prodotto una evoluzione verso una patologia più grave fistolizzante e perforante”, configurando “la evoluzione verso un quadro di addome acuto e di resezione intestinale“.