Morte del neonato: la responsabilità della struttura sanitaria è contrattuale (Tribunale Lecce, sentenza n. 1628/2022)

Nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Lecce, veniva avanzata domanda risarcitoria per il decesso di una neonata avvento, tredici giorni dopo il parto, presso l’Ospedale “F. Ferrari” di Casarano.

Il Tribunale di Lecce, con sentenza n. 1628/2022, pubblicata il 01.06.2022, accoglieva la domanda inquadrando la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale.

Estratto sentenza Tribunale di Lecce n. 1628/2022, pubblicata il 01.06.2022:

[…] Occorre in primo luogo precisare che è ormai consolidato, in dottrina e in giurisprudenza, l’inquadramento della responsabilità gravante sulla struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, comporta la conclusione di un contratto (Cass., SS.UU., n 577/2008). Ne consegue che la fonte del rapporto che si instaura tra paziente ed ente ospedaliero sia un atipico contratto di spedalità con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo, insorgono a carico della struttura una serie di obblighi, primi fra tutti quelli di tipo lato sensu alberghieri, oltre che l’ineludibile obbligo di messa a disposizione del personale medico e paramedico ed infine quelli di apprestare tutte le necessarie obbligazioni di assistenza e protezione destinate a personalizzarsi in relazione alla patologia del soggetto.

La giurisprudenza e la dottrina, poi, sono concordi nel ritenere che, per quanto concerne le obbligazioni mediche in senso stretto poste in essere da sanitari, personale paramedico e lato sensu ausiliario della struttura sanitaria, l’ente ospedaliero risponda ex art. 1228 c.c. a titolo di responsabilità indiretta (ciò sebbene in tema di responsabilità civile l’art. 7 della l. n. 24/2017 introduce una diversa qualificazione delle responsabilità della struttura sanitaria e del sanitario, ritenendo di natura contrattuale la prima ed extracontrattuale la seconda, salvo l’obbligazione contrattuale assunta direttamente dal medico con il paziente).Così ricostruito il rapporto, ne discende che, ai fini della ripartizione dell’onere probatorio, il paziente debba provare innanzitutto l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo in cui egli vi si trovi inserito; spetta sempre al paziente l’onus di allegare (oltreché le fasi del ricovero e del trattamento) anche l’inadempimento rappresentato dalla lesione subita, mentre la struttura dovrà dimostrare il corretto o impossibile adempimento della prestazione, dunque la sopravvenienza del caso fortuito.

Tant’è che, secondo la recentissima pronuncia della Suprema Corte, “in tema di responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni professionali (tra le quali si collocano quelle di responsabilità medica, anteriormente alla l. n. 24 del 2017), è onere del creditore-danneggiato provare, oltre alla fonte del suo credito (contratto o contatto sociale), il nesso di causalità, secondo il criterio del “più probabile che non”, tra la condotta del professionista e il danno lamentato, mentre spetta al professionista dimostrare, in alternativa all’esatto adempimento, l’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile, provando che l’inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile, da intendersi nel senso oggettivo della sua inimputabilità all’agente” (Cass. n. 10050/2022).

L’ente ospedaliero risulta quindi esonerato dal rimprovero di responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. soltanto nel caso in cui il fatto dannoso occorso al paziente in degenza si realizzi per l’insorgenza di un fattore imprevedibile e inevitabile, ovverosia dalla causazione dell’evento lesivo da parte di un fattore umano o naturale, imprevedibile ed inevitabile, riconducibile quindi al concetto di fatalità. Spetta quindi al debitore l’onere di provare, ai sensi del citato art. 1218 c.c., l’impossibilità della prestazione (con la specifica indicazione della causa che l’ha determinata) e la non imputabilità della specifica scaturigine dell’evento lesivo occorso al paziente, perché appunto imprevedibile e inevitabile.

Per quanto da ultimo attiene all’eventuale responsabilità della struttura ospedaliera ex art. 1228 c.c., questa si configura allorché tra le incombenze affidate al personale medico o paramedico (da considerarsi ausiliari in senso lato) e l’illecito, ricorra un rapporto di stretta derivazione causale, dovendosi ritenere tale forma di responsabilità in capo all’ente che utilizza e dispone del lavoro altrui per propri fini sussista ogni qualvolta si manifesti un nesso di occasionalità necessaria tra la condotta del soggetto agente e l’evento lesivo per il paziente– e restando, dunque, irrilevante la tipologia contrattuale che regola il rapporto tra casa di cura e sanitario che vi opera, se di dipendente o libero-professionista; le incombenze svolte dal preposto devono aver reso possibile quindi, o comunque agevolato, la produzione dell’evento dannoso perché dello stesso possa essere chiamato a rispondere a titolo di responsabilità ex art. 1228 c.c. l’ente ospedaliero che si serve dell’attività del preposto.

Infine, secondo i chiarimenti ermeneutici resi dalla Suprema Corte, “la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tali principi operano non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione del giudice di merito, che aveva escluso la responsabilità dei sanitari nonostante non risultassero per sei ore annotazioni sulla cartella clinica di una neonata, nata poi con grave insufficienza mentale causata da asfissia perinatale, così da rendere incomprensibile se poteva essere più appropriata la rilevazione del tracciato cardiotocografico rispetto alla mera auscultazione del battito cardiaco del feto)” (Cass. n. 6209/2016); ancora, “la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell’art. 2236 cod. civ. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza” (Cass. n. 4095/2006). E ancora, “L’affermazione della responsabilità del medico per i danni celebrali da ipossia patiti da un neonato, ed asseritamente causati dalla ritardata esecuzione del parto, esige la prova – che deve essere fornita dal danneggiato – della sussistenza di un valido nesso causale tra l’omissione dei sanitari ed il danno, prova da ritenere sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno cerebrale patito dal neonato sia derivato da cause naturali o genetiche e, dall’altro, appaia più probabile che non che un tempestivo o diverso intervento da parte del medico avrebbe evitato il danno al neonato; una volta fornita tale prova in merito al nesso di causalità, è onere del medico, ai sensi dell’art. 1218 c.c., dimostrare la scusabilità della propria condotta” (Cass. n. 11789/2016 e n. 12686/2011). […]

Avv. Cosimo Montinaro

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