Una recente pronuncia del Tribunale di Taranto affronta una questione di grande rilevanza pratica nel mondo del lavoro: cosa accade quando il datore di lavoro trattiene le quote destinate alla previdenza complementare senza versarle al fondo? La vicenda sottoposta all’esame del giudice riguarda un lavoratore che aveva aderito al fondo Previambiente, ma si è trovato a dover attendere anni prima che le somme accantonate venissero effettivamente versate. La sentenza emessa nel 2024 dal Tribunale di Taranto chiarisce aspetti fondamentali sulla natura giuridica di questi crediti e sulle tutele esperibili dal lavoratore.
Il caso trattato solleva interrogativi che vanno ben oltre la singola controversia, toccando temi centrali come la distinzione tra crediti retributivi e previdenziali, il rapporto trilaterale tra lavoratore, datore di lavoro e fondo pensione, e le conseguenze dell’inadempimento datoriale. La pronuncia si inserisce in un dibattito giurisprudenziale complesso, che ha visto negli ultimi anni un’evoluzione significativa nell’interpretazione delle norme sulla previdenza complementare. Il Tribunale tarantino ha dovuto confrontarsi con principi elaborati dalla Corte di Cassazione, offrendo una lettura chiara e operativa della disciplina applicabile.
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Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda trae origine dal rapporto di lavoro instaurato tra un dipendente e una società operante nel settore dei servizi ambientali. Il lavoratore, regolarmente assunto, aveva esercitato la facoltà prevista dalla contrattazione collettiva nazionale di aderire al fondo di previdenza complementare denominato Previambiente, destinando a tale forma pensionistica integrativa sia le quote di trattamento di fine rapporto maturate mensilmente, sia ulteriori contributi a proprio carico e a carico del datore di lavoro. L’adesione al fondo era avvenuta in conformità a quanto disposto dal contratto collettivo nazionale applicabile al settore, che prevedeva specifiche modalità di contribuzione e versamento.
Nonostante l’iscrizione formale al fondo e la regolare trattenuta delle somme dalla busta paga del dipendente, la società datrice non provvedeva tuttavia a versare effettivamente le quote accantonate a favore di Previambiente. L’omissione si protraeva per un periodo considerevole, dal gennaio dell’anno precedente fino a maggio dell’anno successivo, con l’unica eccezione del mese di febbraio. Durante questo lasso temporale, il lavoratore si trovava quindi nella condizione di aver rinunciato a percepire immediatamente parte della propria retribuzione e del proprio trattamento di fine rapporto, confidando nella corretta esecuzione dell’obbligo di versamento da parte del datore di lavoro, senza però che tale versamento venisse concretamente realizzato.
La situazione si protraeva nel tempo senza che la società fornisse spiegazioni o provvedesse spontaneamente a sanare l’inadempimento. Il lavoratore, ancora in servizio presso l’azienda, si trovava così a subire un pregiudizio non immediato ma certamente concreto, in quanto le somme non versate al fondo non potevano generare i rendimenti previsti dalla gestione previdenziale complementare. La posizione individuale presso Previambiente risultava quindi compromessa dall’omissione contributiva, con conseguente riduzione delle prestazioni future cui il dipendente avrebbe potuto accedere al momento del pensionamento o al verificarsi degli altri eventi previsti dallo statuto del fondo.
Di fronte a questa inerzia prolungata, il lavoratore decideva di agire giudizialmente, rivolgendosi al Giudice del Lavoro di Taranto con un ricorso articolato. Nel proprio atto introduttivo, depositato presso il Tribunale, il dipendente chiedeva innanzitutto l’accertamento e la dichiarazione dell’inadempimento della società consistente nel ritardato oppure omesso versamento delle quote di contribuzione. Tali quote comprendevano la totalità del trattamento di fine rapporto maturato mensilmente, destinato per intero alla previdenza complementare secondo la scelta operata dal lavoratore, nonché la quota di contribuzione obbligatoria posta a carico del datore di lavoro, la quota di contribuzione opzionale che il dipendente aveva scelto di versare a proprio carico, e infine un ulteriore contributo fisso mensile previsto dalla contrattazione collettiva.
La domanda giudiziale si articolava in una richiesta di condanna della società al versamento diretto in favore del fondo Previambiente dell’intera somma dovuta per il periodo indicato, maggiorata degli interessi legali e della rivalutazione monetaria come previsto dalla legge. Il lavoratore evidenziava come l’inadempimento datoriale ledesse il proprio diritto a veder realizzata la finalità previdenziale per cui aveva scelto di destinare parte significativa della propria retribuzione al fondo pensione. La costituzione in giudizio del fondo Previambiente, chiamato quale soggetto terzo percettore dei contributi, attestava la effettiva esistenza dell’omissione e la mancata alimentazione della posizione individuale del lavoratore per tutto il periodo considerato.
NORMATIVA E PRECEDENTI
Il quadro normativo di riferimento per la previdenza complementare trova la propria disciplina organica nel decreto legislativo numero 252 del 2005, emanato in attuazione della legge delega numero 243 del 2004, con l’obiettivo dichiarato di incrementare i flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari. Questa normativa ha sostituito e razionalizzato la precedente disciplina contenuta nel decreto legislativo numero 124 del 1993, introducendo importanti novità volte ad armonizzare il settore della previdenza integrativa.
L’articolo 1 del decreto legislativo 252 del 2005 definisce la finalità delle forme pensionistiche complementari, affermando che esse sono dirette ad assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale attraverso prestazioni pensionistiche che si aggiungono a quelle erogate dal sistema obbligatorio pubblico. Questa disposizione conferma un principio già valorizzato dalla Corte costituzionale, che ha riconosciuto l’esistenza di un collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e complementare, collocando quest’ultima nel sistema dell’articolo 38 della Costituzione. La Corte costituzionale, con le sentenze numero 393 del 2000 e numero 421 del 1995, ha infatti aderito alla teoria della funzionalizzazione della previdenza complementare, riconoscendone la natura e la funzione prettamente previdenziale.
Un aspetto caratterizzante della previdenza complementare, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, è rappresentato dalla sua autonomia rispetto al sistema pubblico. L’adesione alle forme pensionistiche complementari è libera e volontaria, secondo quanto disposto dall’articolo 1, secondo comma, del decreto citato. Le fonti istitutive di tali forme, che possono essere negozi collettivi o regolamenti, devono stabilire le modalità di partecipazione garantendo comunque la libertà di adesione individuale del lavoratore, come previsto dall’articolo 3, terzo comma, della medesima normativa.
Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari avviene mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente, e attraverso il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando, secondo quanto stabilito dall’articolo 8, primo comma, del decreto 252 del 2005. Queste risorse vengono gestite dai fondi di pensione secondo le modalità previste dall’articolo 6 della normativa di settore e costituiscono la provvista per le prestazioni erogate ai sensi dell’articolo 11. Quest’ultima disposizione vincola la partecipazione individuale fino alla maturazione dei requisiti per la riscossione delle prestazioni pensionistiche, salva la possibilità di riscatto della posizione individuale e la facoltà di ottenere anticipazioni nelle ipotesi tassativamente previste.
Un istituto particolarmente rilevante ai fini della mobilità del risparmio previdenziale è quello della portabilità, disciplinato dall’articolo 14, comma 6, del decreto. Tale norma consente il trasferimento dell’intera posizione individuale ad un’altra forma pensionistica complementare, permettendo al lavoratore di scegliere le opportunità di impiego del risparmio previdenziale ritenute più convenienti. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza numero 12209 del 2022, ha qualificato portabilità e riscatto come un principio generale del sistema previdenziale complementare, rappresentante un vero e proprio diritto applicabile a tutti i fondi complementari.
La questione più delicata riguarda il conferimento del trattamento di fine rapporto al fondo di previdenza complementare, che può avvenire nelle forme dell’adesione espressa o tacita secondo l’articolo 8, settimo comma, lettere a e b del decreto. In caso di insolvenza del datore di lavoro che abbia provveduto ad accantonare il trattamento di fine rapporto conferito al fondo senza tuttavia versarlo, si pone il problema di individuare il soggetto titolare del diritto di credito. Sul punto è intervenuto anche il Fondo di Garanzia istituito presso l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, ai sensi dell’articolo 5, secondo comma, del decreto legislativo numero 80 del 1992, che prevede l’intervento in caso di omissione contributiva del datore di lavoro soggetto a procedura concorsuale.
La giurisprudenza di legittimità ha affrontato più volte la questione della natura giuridica del rapporto trilaterale che si instaura tra lavoratore, datore di lavoro e fondo pensione. La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 4626 del 2019, ha chiarito che nell’ambito di tale rapporto associativo, intermediato dal datore di lavoro quale debitore delle quote tempo per tempo maturate, occorre verificare se il conferimento del trattamento di fine rapporto si sia concretamente tradotto in una vera e propria cessione ovvero in una delegazione di pagamento ai sensi dell’articolo 1270 del codice civile.
Un principio fondamentale è stato affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza numero 4684 del 2015, secondo cui i versamenti effettuati dal datore di lavoro ai fondi di previdenza complementare hanno natura previdenziale e non retributiva, a prescindere dalla natura del soggetto destinatario della contribuzione, e pertanto non sussistono i presupposti per l’inserimento di tali versamenti nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro. Questo orientamento è stato confermato da successive pronunce, tra cui la sentenza numero 2406 del 2022.
Tuttavia, la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza numero 16116 del 2023 ha operato un distinguo fondamentale. Secondo tale pronuncia, occorre verificare se il conferimento del trattamento di fine rapporto sottenda una delegazione di pagamento ovvero la cessione di un credito futuro, trattandosi di una qualificazione incidente sulla titolarità del diritto e sulla conseguente legittimazione a dedurlo in causa. La sentenza ha enunciato il principio secondo cui, in tema di previdenza complementare, il generico riferimento al conferimento del trattamento di fine rapporto maturando alle forme pensionistiche complementari lascia aperta la possibilità che le parti pongano in essere non già una delegazione di pagamento ma una cessione di credito futuro.
Nel caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di trattamento di fine rapporto maturate e accantonate ma non versate al fondo di previdenza complementare spetta di regola al lavoratore, stante lo scioglimento del rapporto di mandato in cui si estrinseca la delegazione di pagamento, salvo che dall’istruttoria emerga che vi sia stata una cessione del credito in favore del fondo, cui in quel caso spetta la legittimazione attiva. Questo principio trova fondamento nell’articolo 78, secondo comma, della legge fallimentare, che prevede lo scioglimento del contratto di mandato in caso di fallimento del mandatario.
Un ulteriore aspetto normativo rilevante è rappresentato dall’articolo 5 del decreto legislativo 80 del 1992, che disciplina l’intervento del Fondo di Garanzia. Tale norma prevede che, in caso di omesso o parziale versamento dei contributi dovuti per forme di previdenza complementare da parte del datore di lavoro insolvente, il lavoratore possa richiedere al Fondo di Garanzia di integrare presso la gestione di previdenza complementare interessata i contributi risultanti omessi. In tali ipotesi, il Fondo viene surrogato di diritto al lavoratore per l’equivalente dei contributi omessi e versati.
La Corte costituzionale, con la sentenza numero 154 del 2021, ha evidenziato la mancata attuazione delle previsioni della legge delega numero 243 del 2004, la quale all’articolo 1, comma 2, lettera e, numero 8, prevedeva l’attribuzione ai fondi pensione della contitolarità con i propri iscritti del diritto alla contribuzione, compreso il trattamento di fine rapporto cui è tenuto il datore di lavoro, e la legittimazione dei fondi stessi a rappresentare i propri iscritti nelle controversie aventi ad oggetto i contributi omessi.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
Il Tribunale di Taranto ha affrontato la questione con una motivazione articolata e approfondita, prendendo posizione su aspetti fondamentali della previdenza complementare. La decisione si è basata innanzitutto sulla ricostruzione della natura giuridica del rapporto trilaterale che lega il lavoratore, il datore di lavoro e il fondo pensione Previambiente.
