Una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito un principio fondamentale per la tutela del coniuge economicamente debole nei procedimenti di divorzio. La vicenda processuale ha origine da una complessa separazione matrimoniale che ha visto protagonisti due ex coniugi con situazioni economiche drasticamente diverse. La Corte d’Appello di Milano aveva in precedenza revocato completamente l’assegno divorzile riconosciuto in primo grado, ritenendo che il semplice fatto di aver trovato un’occupazione lavorativa fosse sufficiente per escludere ogni forma di sostegno economico.
Il caso presenta elementi di particolare interesse per la giurisprudenza di famiglia, soprattutto in relazione alla delicata questione dell’autosufficienza economica del coniuge richiedente l’assegno. La donna, dopo anni di matrimonio e la nascita di due figli, si era trovata a dover ricostruire la propria indipendenza professionale in un contesto di evidente disparità reddituale rispetto all’ex marito. Quest’ultimo, professionista affermato con redditi mensili superiori ai diecimila euro, aveva chiesto e ottenuto in appello la completa eliminazione dell’obbligo di corresponsione dell’assegno.
La Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su una questione di diritto che tocca migliaia di famiglie italiane: quando si può considerare realmente autosufficiente un coniuge che ha trovato un’occupazione ma percepisce un reddito molto modesto? La risposta della Suprema Corte segna un importante precedente per tutti coloro che si trovano in situazioni analoghe, ribadendo che la funzione assistenziale dell’assegno divorzile non può essere semplicisticamente negata sulla base di presunzioni non supportate da prove concrete.
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Indice
- ESPOSIZIONE DEI FATTI
- NORMATIVA E PRECEDENTI
- DECISIONE DEL CASO E ANALISI
- ESTRATTO DELLA SENTENZA
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ESPOSIZIONE DEI FATTI
La vicenda matrimoniale ha inizio nel 2004 quando i due protagonisti, entrambi professionisti del settore legale, contraggono matrimonio a Buenos Aires. La coppia, dopo essersi conosciuta durante un convegno in Argentina, decide di trasferirsi in Italia dove nascono due figli. Il progetto familiare condiviso prevedeva che la moglie, avvocata in Argentina, conseguisse l’iscrizione all’albo professionale italiano attraverso il superamento della prova attitudinale.
La separazione giudiziale viene pronunciata dal Tribunale di Milano nel 2018, dopo anni di crescenti difficoltà coniugali. Durante questo periodo, la moglie aveva tentato senza successo di ottenere il riconoscimento professionale in Italia, non riuscendo a superare l’esame sostenuto nel 2012 nonostante la frequenza di specifici corsi di preparazione. La famiglia beneficiava dell’assistenza di una collaboratrice domestica per diverse ore settimanali, circostanza che secondo la difesa del marito avrebbe dovuto consentire alla moglie di dedicarsi maggiormente alla propria formazione professionale.
Nel corso del procedimento di divorzio, entrambi i coniugi inizialmente richiedono l’affido condiviso dei figli con collocazione prevalente presso la madre e l’assegnazione a quest’ultima dell’abitazione familiare. Tuttavia, le posizioni divergono significativamente per quanto riguarda l’assegno di mantenimento per la moglie. Il marito, introducendo il giudizio divorzile, chiede espressamente la revoca dell’assegno già riconosciuto in sede di separazione, mentre la moglie avanza domanda di aumento dell’importo fino a duemila euro mensili.
La situazione si complica ulteriormente quando emergono problematiche relative ai figli minori. Il padre presenta diversi ricorsi ex articolo 709 ter del codice di procedura civile, lamentando le numerose assenze scolastiche del figlio maggiore e sintomatologie di natura psicosomatica manifestate quando il bambino si trovava con la madre. Questi elementi portano il Tribunale a modificare radicalmente l’assetto familiare, disponendo l’affidamento esclusivo dei figli al padre con collocamento presso lo stesso.
NORMATIVA E PRECEDENTI
La disciplina dell’assegno divorzile trova il suo fondamento normativo nell’articolo 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, che ha subito nel tempo una significativa evoluzione interpretativa ad opera della giurisprudenza di legittimità. La Cassazione a Sezioni Unite, con la fondamentale sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018, ha ridefinito completamente la natura dell’assegno divorzile, riconoscendogli una triplice funzione: perequativa, compensativa e assistenziale.
Il riconoscimento dell’assegno richiede una valutazione del contributo fornito dal coniuge alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale, tenendo conto della durata del matrimonio e dell’età dell’avente diritto. Questo approccio mira a compensare gli eventuali sacrifici professionali e personali compiuti dal coniuge richiedente durante la vita matrimoniale. La giurisprudenza ha stabilito che non è necessario che il sacrificio lavorativo sia totale, essendo sufficiente che il coniuge abbia sacrificato l’attività lavorativa o occasioni di carriera per dedicarsi maggiormente alla famiglia.
Per quanto riguarda l’affidamento dei figli minori, la normativa di riferimento è costituita dagli articoli 337-ter e 337-quater del codice civile. Questi articoli disciplinano l’affidamento esclusivo, prevedendo che ai fini della scelta il giudicante debba avere riguardo al solo interesse psico-fisico dei minori, al fine di evitare situazioni dannose o disagevoli agli stessi. La Cassazione ha chiarito con sentenza n. 16738 del 26 giugno 2018 che l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo deve essere sorretta da una motivazione non solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sull’inidoneità educativa ovvero sulla manifesta carenza dell’altro.
La recente giurisprudenza di legittimità, con Cassazione n. 1486/2025, ha ribadito che le statuizioni sull’affidamento, il collocamento e la frequentazione dei figli devono rispondere ad una valutazione in concreto intesa al perseguimento dell’interesse superiore del minore, non potendo essere adottati provvedimenti che limitino grandemente la frequentazione tra uno dei genitori e il figlio in applicazione di valutazioni astratte.
DECISIONE DEL CASO E ANALISI
Il Tribunale di Milano aveva inizialmente riconosciuto alla moglie un assegno divorzile di mille euro mensili, oltre all’assegnazione della casa coniugale, pur disponendo l’affidamento esclusivo dei figli al padre. Questa decisione si basava sulla valutazione delle diverse condizioni economiche dei coniugi e sulla necessità di garantire alla donna un sostegno per raggiungere un’esistenza dignitosa.
La Corte d’Appello di Milano, tuttavia, aveva completamente ribaltato questa impostazione. I giudici di secondo grado avevano revocato l’assegno divorzile ritenendo che la moglie, avendo trovato un’occupazione come insegnante supplente con un reddito mensile di circa ottocento euro, fosse da considerarsi economicamente autosufficiente. La Corte territoriale aveva inoltre ridotto significativamente il contributo per il mantenimento dei figli, portandolo da seicento a duecento euro per ciascun figlio, e aveva modificato la ripartizione delle spese straordinarie dal 100% al 70% a carico del padre.
La decisione d’appello si era fondata su una presunta capacità reddituale nascosta della moglie, argomentando che la stessa disponesse di ulteriori possibilità occupazionali oltre a quelle dichiarate. I giudici milanesi avevano ritenuto presuntivamente dimostrate entrate superiori a quelle risultanti dalle certificazioni in atti, tali da consentirle di procurarsi i mezzi necessari a condurre un’esistenza dignitosa.