Mobbing del datore di lavoro
Tribunale Sassari, Sez. lavoro, Sentenza, 12/01/2023, n. 8
“Costituisce “mobbing” la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psicofisico e del complesso della sua personalità; necessari per la configurabilità della fattispecie sono pertanto: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio alla integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, ovvero del disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione”
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Estratto della sentenza
“2. Sul mobbing
Sebbene la domanda sia stata proposta nelle conclusioni sia con richiamo all’art. 2087 c.c. che con riferimento alla responsabilità extracontrattuale, il dovere di qualificazione giuridica della domanda deve necessariamente condurre all’ambito della responsabilità contrattuale del datore di lavoro, sotto il particolare profilo dell’affermata violazione del dovere previsto dall’art. 2087 c.c. di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro.
E’ utile premettere che l’istituto – di elaborazione giurisprudenziale – del mobbing è definibile come l’illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell’osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente (condotta che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c.); tale illecito si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato; la sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata – procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi – considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato (Cass. civ. 6.3.2006 n. 4774); in altre parole, costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità; necessari per la configurabilità della fattispecie sono pertanto: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio alla integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, ovvero del disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass. civ. 17.2.2009 n. 3785; Cass. civ. 5.11.2015 n. 22635; Cass. civ. 16.3.2016 n. 5230; Cass. sez. L. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. sez. L. 9 giugno 2020, n. 10992).
La più recente ed attenta giurisprudenza ha esteso la figura del mobbing ampliandola sino alla più tenue figura dello straining, sulla base di una interpretazione estensiva dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico, in ragione del rilievo costituzionale del diritto alla salute e dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro: secondo Cass. civ. 19/2/2016 n. 3291, il datore di lavoro è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative stressogene, e a tal fine il giudice di merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente riferirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno; Cass. 11/11/2022 n. 33428 ha precisato che rilevano a tal fine anche le condotte del datore di lavoro che colposamente consenta il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute.
L’onere della prova gravante sulla parte ricorrente attiene alla ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte dirette (oggettivamente) all’espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un alto tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché sorrette (soggettivamente) da un intento persecutorio e tra loro intrinsecamente collegate dall’unico fine intenzionale di isolare il dipendente (Cass. civ. 23/1/2015 n. 1258, Cass. 9/6/2020 n. 10992). Non è forse superfluo precisare che la valutazione oggettiva della natura vessatoria delle condotte non può in alcun modo essere influenzata dal vissuto soggettivo del lavoratore, e dalle intenzioni che lo stesso può aver attribuito alla parte datoriale in base alle proprie convinzioni personali, se non ancorate a riscontri effettivi […]”