Il fallito ha diritto all’equa riparazione per la irragionevole durata del processo fallimentare (Legge Pinto)
La dichiarazione di fallimento è sempre un momento delicato e difficile per l’imprenditore, che si trova improvvisamente privato della propria azienda e della possibilità di gestirla autonomamente. Ancor più gravoso può risultare il protrarsi per anni di tale condizione, a causa della irragionevole durata del processo fallimentare. Eppure, fino a poco tempo fa, la giurisprudenza negava al fallito la possibilità di ottenere un ristoro per il danno non patrimoniale subito a causa di questo eccessivo ritardo. Ma la sentenza della Corte di Cassazione del 2013 ha capovolto questa impostazione, riconoscendo finalmente al fallito il diritto di agire per ottenere l’equa riparazione prevista dalla legge Pinto. Quali sono i presupposti e le implicazioni di questa importante decisione? E quali sono le prospettive future in relazione a tale delicata tematica? Scopriamolo insieme in questo approfondimento.
Indice:
- Esposizione dei fatti di causa
- Normativa e precedenti giurisprudenziali applicati
- Decisione del caso e analisi della sentenza
- Massima risolutiva della sentenza
- Implicazioni pratiche della sentenza
1. Esposizione dei fatti di causa
La sentenza in esame riguarda il caso di P.A.M., in proprio e quale accomandataria della società Essedue, che aveva proposto ricorso alla Corte d’Appello di Campobasso ai sensi della Legge Pinto, per ottenere un’equa riparazione a seguito della irragionevole durata del processo fallimentare aperto nei confronti della propria società. Il Tribunale di Lanciano, infatti, aveva dichiarato il fallimento della Essedue con sentenza del 24 aprile 1992, ma tale procedura risultava ancora pendente alla data di proposizione della domanda, avvenuta l’18 maggio 2011.
La Corte d’Appello di Campobasso aveva però rigettato la domanda, ritenendo che la legittimazione a proporre l’istanza di equa riparazione spettasse esclusivamente al curatore fallimentare, e non al fallito.
2. Normativa e precedenti giurisprudenziali applicati
Il ricorso in Cassazione si fondava sulla violazione del combinato disposto dell’art. 43, comma 1 e art. 46, comma 1, della Legge Fallimentare, nonché della Legge n. 89 del 2001, art. 2 (c.d. Legge Pinto), richiamando la giurisprudenza di legittimità che aveva già riconosciuto la legittimazione del fallito alla proposizione della domanda di equa riparazione.
In particolare, venivano citate le sentenze della Corte di Cassazione n. 17261 del 2002 e n. 12807 del 2003, dalle quali la Corte d’Appello di Campobasso si era invece discostata, aderendo ad una diversa pronuncia (Cass. n. 3117 del 2005).
3. Decisione del caso e analisi della sentenza
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando il decreto impugnato e rinviando la causa alla Corte d’Appello di Campobasso, in diversa composizione.
Nell’esaminare il caso, la Suprema Corte ha condiviso l’orientamento espresso nelle sentenze n. 17261/2002 e n. 12807/2003, riconoscendo che il fallito rientra tra i titolari del diritto alla ragionevole durata del procedimento fallimentare, in quanto la procedura “riguarda lui prima e più di chiunque altro“.
Ciò in base al rilievo che il fallito gode di numerose tutele nell’ambito del procedimento fallimentare, a partire dal suo “diritto alla preventiva audizione” previsto dall’art. 15 della Legge Fallimentare, oltre al fatto che “molteplici sono le norme che prevedono o presuppongono la possibilità di intervento e di interlocuzione del fallito” nel corso del processo concorsuale.
Inoltre, la Cassazione ha evidenziato come il protrarsi irragionevole della procedura fallimentare comporti per il fallito “gravose limitazioni di carattere personale“, tali da dimostrare che la sua “posizione giuridica [è] direttamente interessata al maggiore o minor protrarsi di tale processo nel tempo“.
Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che il fallito debba essere considerato “parte del processo fallimentare“ ai fini dell’applicazione della Legge Pinto, respingendo l’opposta tesi per cui la legittimazione spetterebbe solo al curatore.
4. Massima risolutiva della sentenza
“La disciplina dell’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo trova applicazione anche nel caso in cui il ritardo lamentato si riferisca al procedimento esecutivo concorsuale cui da vita la dichiarazione di fallimento, ed anche in favore del fallito, il quale, in quanto parte del processo fallimentare, è titolare del diritto alla ragionevole durata di esso.” (Cass. civ., Sez. II, 14 maggio 2013, n. 13605)
5. Implicazioni pratiche della sentenza
La sentenza n. 13605/2013 della Corte di Cassazione rappresenta un importante punto di svolta nella tutela dei diritti del fallito, riconoscendogli finalmente la possibilità di ottenere un ristoro per il danno non patrimoniale subito a causa dell’irragionevole durata del processo fallimentare.
Questo orientamento, che si discosta da precedenti pronunce più restrittive, apre nuove prospettive per i falliti che si siano trovati a subire gravi conseguenze personali a causa del protratto svolgimento della procedura concorsuale. Tra queste conseguenze, la sentenza richiama espressamente le “gravose limitazioni di carattere personale” cui il fallito è sottoposto.
Inoltre, la Cassazione ha sottolineato come il conflitto di interessi tra il fallito e il curatore fallimentare possa giustificare la legittimazione autonoma del fallito a proporre la domanda di equa riparazione, evitando così che l’inerzia o la condotta del curatore pregiudichino irrimediabilmente i diritti del fallito stesso.
In definitiva, questa pronuncia rappresenta un importante passo avanti nella tutela dei diritti del fallito, riconoscendogli finalmente quella “effettiva giustizia” che era stata finora negata dalla giurisprudenza precedente. È lecito attendersi che, in futuro, essa possa aprire la strada a ulteriori evoluzioni nella protezione delle posizioni giuridiche del fallito nell’ambito del processo concorsuale.